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Parlare di donne a Trieste con Margarethe von Trotta

Era attesa in novembre a Castellinaria, ma problemi di salute le hanno impedito di ritirare il Castello d’Onore: a colloquio con la regista tedesca

‘Anch’io, quando ero una giovane attrice, ho subito attenzioni particolari da parte di produttori e registi’
(Keystone)
29 gennaio 2024
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Abbiamo incontrato, ancora una volta, la grande regista Margarethe von Trotta al Trieste Film Festival, particolare manifestazione attenta, come spiegava il suo vecchio nome (‘Alpe Adria Film’) a temi civili, storici e geografici. Festival cresciuto come momento insostituibile di testimonianze filmiche durante la lunga guerra nella ex Jugoslavia, quello di Trieste ha mantenuto saldamente l’idea di essere necessario per raccontare un largo territorio fisico e umano. Un Festival in cui la regista tedesca, venuta qui per presentare il biopic non lineare ‘Ingeborg Bachmann - Journey Into the Desert’, visto in anteprima alla Berlinale dello scorso anno, si è trovata subito a suo agio per l’impegno al femminile della direttrice artistica Nicoletta Romeo. Non a caso, uno degli ultimi appuntamenti del Festival era un itinerario locale per scoprire ‘Il lavoro delle donne a Trieste dal XVIII secolo a oggi’. Ed è improbo il lavoro delle donne nel cinema?

Lo chiediamo a Margarethe von Trotta. Lei sorride prima di rispondere: «Il caso di Harvey Weinstein ha scoperchiato un vaso di Pandora colmo di violenze contro attrici e donne di cinema e cultura. Anch’io, quando ero una giovane attrice, ho subito attenzioni particolari da parte di produttori e registi. Posso dire che non ho ceduto e ho sempre deciso io chi portarmi a letto. Ma quello che mi fa più pensare, al di là della tremenda violenza fisica esercitata dagli uomini sulle donne, è un’altra più diffusa violenza, quella connaturata, della supposizione di superiorità del maschio sulla femmina. Una violenza che ho respirato gravemente quando, dopo aver lasciato Roma dove lavoravo per l’avvento al potere di Silvio Berlusconi, mi ero rifugiata a Parigi, felice di frequentare quel mondo politico e culturale più vicino alle mie idee. Ma quegli intellettuali si mostrarono ferocemente, seppur cortesemente, maschilisti, incapaci di ritenere alla pari un’affermazione femminile».

Roma, Monaco, Berlino

A proposito del suo lavoro romano e del suo impegno sulle donne, lei era già stata a Trieste... «Sì, nel 2010 per un progetto della Rai, una miniserie con registi diversi: un episodio lo dirigeva Liliana Cavani, erano tutti ambientati a Trieste, il mio ‘La fuga di Teresa’ era la storia di una ragazza che cerca di comprendere il suicidio della madre. Ma eravamo tutti molto impegnati e non ho potuto vivere la città».

Ragazze, madri, donne, possiamo dire che la sua filmografia abbonda di figure femminili? «Ho vissuto solo con mia madre, ho frequentato scuole solo femminili, il primo contatto vero con una figura maschile l’ho avuto a quattordici anni. Conosco meglio l’intimità, il carattere femminile, mi sento più a mio agio. Poi ho cominciato a girare film: eravamo a Monaco, lì si sviluppava il cinema tedesco prima della caduta del muro, poi ci siamo trasferiti in massa a Berlino, ma a Monaco, dove ho cominciato, mi sono trovata incapace di comunicare in un mondo al maschile, non c’erano molte registe e il sistema di lavoro in Germania era molto diverso che in Italia, un sistema che privilegiava l’autore, il regista dirigeva il suo scritto, non c’era collaborazione; in Italia, i rapporti con i produttori non erano diretti ma passavano dalla sceneggiatura da cui partiva il progetto, il sistema tedesco non facilitava certo la presenza femminile. Poi, è vero, se uno guarda la mia filmografia trova un mondo di donne, a partire da Katharina Blum, Christa Klages, Marianne & Juliane, Rosa Luxemburg, l’Africana, Hannah Arendt senza contare varie sorelle. Sì, un mondo di donne, perché sono una donna e conosco le donne meglio dei maschi».

Questioni di famiglia

Hannah Arendt e adesso Ingeborg Bachmann, le due si conoscevano, è interessante. «Si, si conoscevano, e anch’io le ho conosciute, le sue poesie; le leggevamo a scuola. Ingeborg Bachmann poi mi ha sempre accompagnato; infine, l’ho incontrata da Hans Werner Henze poco prima che morisse. L’avevo incontrata anche prima, ma non riuscii a conversare con lei, in quei tempi erano gli uomini a condurre le conversazioni anche negli incontri informali. Fare un film su lei mi è stato più difficile che preparare quello su Hannah, perché solitamente quando penso a un film su un personaggio storico vado alla ricerca delle sue lettere per avere un’idea più intima della figura che affronto. La famiglia di Bachmann non mi ha permesso l’accesso a questi documenti».

Wim Wenders

In questi giorni, il caso cinematografico è il successo dell’ultimo film di Wim Wenders ‘A Perfect Day’. Vi conoscete da molti anni, cosa ne pensa? «Wenders mi ha aiutato molto quando ho cominciato a fare la regista, aveva visto il mio primo film, si era dato da fare per aiutarmi ad andare avanti, sono molto grata a lui. Per questo quando ho sentito che stava girando un film in Giappone su un uomo che pulisce le toilette, ho pensato che non fosse possibile. Poi mi ha fatto ricredere, scegliendo un grande attore come Kōji Yakusho, ma soprattutto seguendo la lezione magistrale del suo regista faro: Yasujirō Ozu, la semplicità assoluta del dire. Mi ha molto colpita». Tornando al suo ‘Ingeborg Bachmann - Reise in die Wüste’, quando uscirà in sala? Il suo viso si fa preoccupato: «Ho un distributore, ma non so ancora la data di uscita del film, nel frattempo giriamo per i Festival e anche qui (le torna il sorriso, ndr) ho avuto il piacere di scoprire un pubblico che s’innamora del film. Cos’è il Cinema senza il pubblico?».

L’intervista è finita, salutiamo la Signora Von Trotta e ci tuffiamo in una fredda giornata triestina segnata dalla sferzante e travolgente bora.

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