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Il giorno perfetto, i giorni perfetti

C'è qualcosa di giapponese in Lou Reed, e qualcosa di Lou Reed in Wim Wenders, ed è qualcosa cui tendere

Due sguardi sul mondo
28 gennaio 2024
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Ascolto ‘Perfect Day’, per la prima volta concentrandomi sul testo. Mi sorprendo a capire al volo il secondo verso: “Drink sangria in the park”. Decido di tradurla. Una parola dopo l’altra assesto dentro di me il senso, e il senso alla musica. Mi propongo di fare una lista degli atti e dei pensieri della canzone, che fanno sì che il giorno sia perfetto. L’imminenza di questa lista animerà la comprensione.

Rileggendo il verso in cui compare “movie” mi torna in mente Truffaut, quando dice: “Datemi tre film, tre libri e tre album a settimana, e sarò felice”. Mi torna in mente regolarmente dalla prima volta che l’ho letto, una trentina d’anni fa. Mi pareva un proposito semplificativo e velleitario. Un giorno poi lo sentii rivestito di un’altra aria, e da allora, a ogni nuovo ritorno, posso dire che mi piace di più. Non lo vedo meno programmatico e insufficiente, ma ora non mi importa. E ci proverò.

Il “giorno” di Lou Reed invece non si può copiare. Sarebbe ancora più vano oltre che feticistico. Quello che si può fare è cercare di penetrarne il senso. Ritrovarlo diverso nelle tue giornate. Cercarlo senza cercarlo. Era un giorno fatto di alberi e di un poco di alcol, e di tornare a casa non da soli. Uscire di nuovo e star vicino a degli animali, dar loro da mangiare. Poi guardare un film, in due, e rimettersi sulla strada di casa. Questo e l’essere in due – con il lavoro sospeso e le preoccupazioni lontane – può fare che ti dimentichi di te stesso. Ma è proprio l’altra persona, che immagino una donna, a farti sentire un altro, e migliore di te. Poi c’è il salto finale – “Raccoglierai giusto (o solo) quello che hai seminato” – un poco inesplicabile, scollegato. Mi pare che nella canzone ci siano vari segni di raccolta, ma la semina? O è un salto anche per il poeta, suscitato dalla rima? Al poeta autentico, però, le rime fanno dire proprio quello che intende dire lui, non le rime. Mi sembra anche che una delle prime parole-rima – “home” – aiuti a generare le altre (fino all’ultima: “sow”, seminare). Vuol dire che “home” è una parola importante, in quella giornata. Sul salto ho un’ipotesi: che l’espressione del verso finale, tante volte ripetuto – “You’re going tu reap just what you sow” – sia detto dall’altro membro del “we” della canzone alla voce che racconta.

C’è qualcosa di orientale negli accordi finali di ‘Perfect Day’, che ribadisce la sostanza delle parole? Qualcosa di giapponese forse, alla fine, evocato da piano e archi? E visto che la proliferazione e il travisamento dello zen, l’infatuazione generale ed epidermica non può impedirci di cercare di capire come riconoscerlo, senza tradimenti e un poco in profondità, forse si può accostare allo zen ‘Perfect Day’?

Lou Reed si avvicinò alle filosofie orientali fin dagli anni 70, così racconta la moglie Laurie Anderson, con la quale negli ultimi anni praticava il Tai Chi. E il suo ultimo album (2007) strumentale, appena ripubblicato, s’intitola ‘Hudson River Wind Meditations’.

L’uomo dei bagni pubblici

‘Perfect Days’ (al plurale) Wim Wenders l’accosta allo zen esplicitamente, anche se di passaggio. ‘Perfect Days’ è il titolo del suo ultimo film, girato a Tokyo in sedici giorni. Durata che rientra in un’attitudine – in questo caso una necessità, perché in un regista autentico la durata del film la decide il film – che si può definire zen. Quando alcuni architetti giapponesi lo invitano a Tokyo, nel maggio del ’22, allo scopo di mostrargli certi nuovi bagni pubblici perché, nel caso, ne facesse l’oggetto di un documentario, Wenders, visitato da una serie di impressioni, pensieri o immagini, o per un’illuminazione, decide di farne un film.

Dice che in un parco nei pressi di casa sua, a Berlino, quando si ricominciò a uscire dopo la pandemia si festeggiò lasciandolo la sera colmo di rifiuti. E che a Tokyo, quando tutti poterono riuscire, fecero festa in parchi che restavano intatti. Che ha iniziato a provare a fare il vuoto che può nella sua casa. Sa che è la strada giusta e quando ci riuscirà meglio, sarà più felice. O sereno. Come il protagonista del suo film. Hirayama, in macchina andando al lavoro, ascolta musica, ogni notte legge qualche pagina di un libro. Musica e libri, due elementi della triade progettata da Truffaut. E quello che fanno in molti, in fondo. Ma lui è felice.

La relazione di Wenders con la cultura giapponese non è superficiale. Nel 1985 aveva reso omaggio al regista Yasujiro Ozu, nel documentario ‘Tokyo-Ga’. In una delle scene si vede un altro regista tedesco, il suo amico Werner Herzog, salire lungo una torre in un ascensore da cui si domina la città. Passava di là diretto in Australia, così incontra l’amico che approfitta per inserirlo nel documentario. Ed Herzog approfitta per disperarsi. Indica i grattacieli e i tetti, le strade e le macchine e dice che non c’è rimedio. Sparite le immagini che possano comunicare con la nostra interiorità. Sotto gli 8’000 metri non ci sono immagini limpide. Sogna di andare su Saturno, lì forse riuscirebbero trasparenti. Lo dice serissimo, triste, mostrandosi poeta anche in questo estremo, umano angosciarsi. Non crede che la pulizia sia nello sguardo, più che nelle immagini. Cosa che crede probabilmente Wenders.

Wenders conosce non superficialmente lo zen, questa corrente filosofico-religiosa che ormai è tutto e il contrario di tutto, da noi. Anche l’estetismo può esserlo, e lui è indubbiamente un esteta, altro terreno scivolosissimo. Ma in ‘Perfect Days’ non scivola mai. E se fosse: “Quasi mai”, sarebbe lo stesso. Un film fatto con nulla, come la vita di Hirayama. Andare al lavoro – addetto alla pulizia dei bagni pubblici – che ama; guidando, altra cosa che ama. Dopo il lavoro lavarsi e tornare a casa, e leggere, dormire, svegliarsi e vivere. La forza di Hirayama è nel desiderare tutto ciò che gli accade. E poi: “Raccoglierai quello che hai seminato”: ascolta tante volte, da Lou Reed, mentre va al lavoro. Hirayama forse è tra quelli che credono che fare bene qualcosa, il tuo compito di ogni giorno, sia la cosa più simile al fare il bene.

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