laR+ Osi in Auditorio

Heinz Holliger, Schubert e dintorni

L’83enne oboista e direttore d’orchestra stasera allo Stelio Molo alla guida dell’Osi nella Terza e nell’Incompiuta del compositore austriaco

‘Fare musica fa parte della vita, è la vita’
(Priska Ketterer)
16 settembre 2022
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«Di cosa parliamo?». Parliamo, se le fa piacere, del programma di venerdì 16 settembre, del suo strumento principale, l’oboe, della direzione d’orchestra, della composizione… «Non c’è un tema specifico di cui dobbiamo parlare. Io sono musicista e non ci sono dipartimenti specifici. Tutte quelle cose vanno sotto un solo nome».

Incontriamo Heinz Holliger alla vigilia del primo appuntamento del nuovo ciclo di Osi in Auditorio che cade oggi nella Giornata nazionale Srg della musica svizzera per poi estendersi sino a Brugg, per la replica argoviese di domani, sabato. Allo Stelio Molo alle 20.30 (diretta su Rsi Rete Due, Rts Espace 2 e in videostreaming su www.rsi.ch/musica), l’83enne maestro bernese – oboista che di quello strumento ha riscritto le regole – dirigerà l’Orchestra della Svizzera italiana in due delle più note sinfonie di Franz Schubert, la Terza e l’Ottava, detta Incompiuta, affiancandovi l’Andante in si minore, orchestrato da Roland Moser sulla base di frammenti originali del compositore austriaco. Nel mezzo, l’argoviese Sebastian Bohren, col suo Stradivari ‘King Slomo’, si farà interprete del Concerto per violino e orchestra n.1 di Béla Bartók.

Maestro, partiamo dal programma? Partiamo da Schubert?

Di Schubert, per la Sony, ho appena terminato la registrazione dell’integrale delle sinfonie, con l’Orchestra da camera di Basilea. Quanto alla Terza sinfonia, Schubert la scrisse a 17 anni ed è un miracolo, è musica perfetta. Quanto all’Incompiuta, quel suo iniziare pianissimo la rende non immediatamente accessibile a un pubblico che abbia appena lasciato i rumori della strada. Io la faccio precedere dall’Andante in si minore, musica ‘sonnambulante’, assai depressiva in quanto scritta da Schubert tre settimane prima di morire. L’Andante termina con un brano per solo quartetto d’archi che non dirigo, e soltanto dopo inizia l’Incompiuta, quando lo stato d’animo della sala lo consente. Passando a Bartók, il Concerto per violino e orchestra n.1 fu scritto nel pieno dell’innamoramento per Stefi Geyer, violinista ungherese 19enne al tempo, ex bambina prodigio. Un libro molto interessante dell’Università di Zurigo raccoglie il carteggio tra i due, impossibilitati a stare insieme per il dichiarato ateismo di lui, che avrebbe spinto la madre di lei a proibire la relazione. Geyer custodì la partitura per cinquant’anni; la consegnò a Paul Sacher, il mecenate di tutta la musica moderna, dicendogli che si sarebbe dovuta suonare solo dopo che ella fosse morta. Nell’occasione di quella prima mondiale il violino fu suonato dal grande Hans-Heinz Schneeberger. Esiste una registrazione su cd, più o meno privata.

Quando arriva nella sua vita la direzione musicale?

Non sono mai passato dallo strumento alla direzione musicale, è sempre stata, anche in questo caso, parte integrante di ciò che ho fatto. Dirigere per me non è mai stato così interessante, la mia necessità è sempre stata quella di scrivere e fare musica. Poi, a ventidue anni, mi chiesero di dirigere ad Amsterdam la mia prima opera ‘Erde und Himmel’ (‘Erde und Himmel’. Kleine Kantate nach Texten von Alexander Xaver Gwerder’, 1961, ndr). Pensai che avrei potuto imparare molte cose e diressi saltuariamente fino al 1976, quando Paul Sacher mi chiese di guidare la sua orchestra da camera di Basilea. Poco a poco la direzione d’orchestra s’è presa più spazio, ma non ho mai sentito nemmeno questa come una cosa diversa. Tutta la musica è un’unità, un’entità, un cosmos.

Cosa ha aggiunto, se lo ha fatto, la direzione musicale al suo personale cosmo?

Quello che posso dire oggi è di avere molta più esperienza nei rapporti con i musicisti. Un direttore d’orchestra deve ‘sentirne’ il carattere, deve sapere come farli suonare al 100% delle loro possibilità e del loro entusiasmo. Si tratta anche di psicologia. Credo che la musica esista sempre nel momento in cui viene suonata ed è sempre diversa, non è il cd. Dopo due minuti l’anima è già diversa perché ha esperienza di questi due minuti. Anche un ritornello non sarà mai il medesimo se si è già ascoltato una prima volta. La musica è sempre nuova. Fare musica fa parte della vita, è la vita.

Anche scriverla?

Sì, anche la scrittura è vita.

Anche scrivere per il suo strumento è vita?

Per quello ho scritto poco. Solo ora, a 83 anni ho cominciato a scrivere di più per il mio strumento, perché per me l’oboe non ha più segreti. Come compositore, l’esperienza è entrare dentro lo strumento senza fargli ‘male’, come ho fatto per i concerti per violino, viola, flauto. È l’atto di un bimbo che vuole conoscere, e per conoscerlo è portato a smontarlo...

In passato, parlando del suo strumento, l’oboe, lei ha usato il termine ‘corpo biologico’: può spiegarci il concetto?

Ritengo che uno strumento faccia sempre parte del corpo, perché il corpo produce musica di suo. E tutto, in musica, è riconducibile al ritmo del cuore, a quello del respiro. Anche quando suoniamo Schubert è sempre un ritmo biologico a condurci e mai quello di un orologio, che non esiste in natura, che non è una regolarità naturale. Quello che regge il rock, per esempio, è un ritmo completamente anti-umano. In ogni caso, parlando del tempo, si potrebbe chiamare in causa Einstein… (ride, ndr).

Ci perdonerà la domanda inflazionata: perché in gioventù scelse proprio l’oboe?

Ascoltai un oboe per la prima volta da bambino alla radio, poi in un teatro. Cantavo in un coro e quando la mia voce è cambiata, verso i 12-13 anni, sentii l’affinità col suono di quello strumento. Anche se preferisco dire che è l’oboe ad aver ripreso la mia voce (ride, ndr). Visto che abbiamo parlato di prolungamento del corpo umano, l’oboe è il prolungamento della mia voce. Rispetto alla mia infanzia, oggi è più semplice scoprire uno strumento: vengono esposti, i ragazzi possono vederli, toccarli, provarli e scegliere, ed è una bella cosa. Io ho scelto l’oboe nel mio villaggio a Langenthal, dove non esisteva un solo professore di oboe, e nemmeno di clarinetto. Solo dopo un anno ho avuto la possibilità di andare ogni settimana a Berna per studiare con Émile Castagnaud.

Il fatto che non fosse uno strumento così ‘protagonista’ non è mai stato un problema?

No. Quello che non sapevo, piuttosto, era che il repertorio fosse così povero se comparato a quello del pianoforte o del violino. A 15 anni scrissi a Sacher per informarlo che mi piaceva molto suonare l’oboe ma ero depresso per l’esiguità dei pezzi. Gli chiesi che ne fossero commissionati a Frank Martin, a Benjamin Britten e ricevetti da lui una risposta molto cordiale. Dopo il concorso di Ginevra, avevo vent’anni, Sacher inviò qualcuno della sua orchestra a prendermi; mi aspettava nel suo ufficio, ma quasi non lo vidi: all’estremità di un tavolo lunghissimo, vuoto, solo una lettera, la mia di cinque anni prima. Dopo quel giorno vennero il doppio concerto di Witold Lutoslawski per oboe e arpa, suonato con mia moglie Ursula, vennero partiture di Frank Martin, di Hans Werner Henze, di Takemitsu, Elliott Carter…

È una bellissima storia, maestro…

Sì, ed è una storia vera.

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