I dibattiti

La Svizzera che conosciamo

Il Primo di agosto è stato spesso l’occasione per riflettere su quanto la Svizzera sia diversa dal resto del mondo, e per compattarci di fronte a sguardi esterni non sempre lusinghieri. In questo Natale della Patria 2021, mi pare però che la sostanza profonda del Paese (federalismo, libertà, responsabilità individuale e coesione) sia minacciata più dall’interno che da fuori.

Forze sociali e politiche apparentemente lontane fra loro, ormai a cadenza quotidiana, mettono in discussione i nostri principi cardine secondo un’idea comune: che questa Svizzera non va bene, e che dovremmo vergognarcene – perché il nostro benessere sarebbe frutto di magheggi finanziari e giuridici, di un astuto Trittbrettfahren, dello sfruttamento di lavoratori e risorse naturali.

È ovvio: anche nel passato della Svizzera sono stati commessi errori, ed elaborarli significa fare avanzare la società – qui come in ogni altra parte del mondo. Ma per farlo serve buona fede, che significa segnalare le eredità scomode, esercitando però in parallelo il dovere della gratitudine, per quanto di buono abbiamo ricevuto. E invece, attorno a noi proliferano gli emuli del Joker nel Batman di Nolan – gente che vuole solo vedere la nostra casa comune bruciare.

Lo spirito vandalico non si scatena solo contro alcune statue, così come la cultura del cancellino non colpisce solo le insegne con la «testa di moro». Un giudice del Canton Vaud ha considerato legittimo violare la proprietà privata di una banca, per manifestare l’adesione a una certa ideologia – magari qualcuno in Ticino la considera una stravaganza dei nostri ipersensibili compatrioti francofoni, ma c’è davvero poco da ridere. Quando assecondiamo chi ci chiede di inginocchiarci in penitenza, di fronte ai suoi vitelli d’oro ideologici, stiamo imboccando una strada molto pericolosa – che ci porta lontano dal futuro che sogniamo per la Svizzera.

Anche le derive violente del dibattito pubblico sono sempre più diffuse attorno a noi. Alcune posizioni politiche – perfettamente legittime in un dibattito civile – vengono progressivamente spinte fuori dal perimetro delle cose dicibili. Lo sa bene chi non liscia il pelo a certe narrative, esponendosi a pericoli sempre meno teorici, nella sfera virtuale e nella realtà. Pensate al proliferare dell’uso del termine «negazionista» (che in fondo è un modo più chic per dire «fascista»): un’etichetta odiosa, talmente appiccicosa che preferiamo spesso stare zitti e abbandonare il dibattito, piuttosto che correre il rischio di dovercela staccare di dosso.

Così, chi critica la dilagante teoria della costruzione di genere è “retrogrado”, chi pensa agli sgravi fiscali per i maggiori contribuenti fa qualcosa di “indecente”, chi mette in dubbio le quote rosa è un fautore del “patriarcato tossico”. Per non parlare di chi ha voluto circoscrivere i lockdown, gente che è stata accusata di "camminare sui morti”.

Il problema è che imboccare la «via del silenzio», cioè scegliere di rinunciare a discutere e confrontarsi, è una soluzione tossicissima per un Paese come la Svizzera. Se la maggioranza si ritira dal confronto, per noia o paura di ritorsioni, il rischio è che le agguerritissime «minoranze ostinate», dalle quali Taleb ci mette in guardia, trovino la finestra di tempo propizia per scrivere nella legge le loro rivendicazioni — che in altri Paesi, meno democratici del nostro, morirebbero come muoiono le mode.

Come presidente di una forza liberale, il mio messaggio di fronte a queste derive della cultura politica sarà sempre chiaro e inequivocabile: fino a prova del contrario, la Svizzera non ha motivo di vergognarsi di ciò che è diventata. In questo Paese nessuno è arrivato in catene e non ci sono vittime: solo cittadini che possono fare uso dei loro diritti per fare avanzare, ancora e ancora, la nostra società verso un futuro migliore.

«Libertà, concordia, amor – all’Elvezia serba ognor»

 

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