Dopo il primo focolaio a Wuhan, il paese è riuscito a domare la pandemia. Ne parliamo con un giornalista esperto dell'area
E quindi, la Cina? Era stata l’epicentro della pandemia, dipinta da mezzo mondo – non senza stereotipi e un certo compiacimento occidentale – come ‘untrice’. Ora invece si direbbe la prima della classe nella gestione del Covid-19, almeno dal punto di vista sanitario. Ma è davvero così? Ne parliamo con Gabriele Battaglia, collaboratore di Rsi, Radio Popolare e Internazionale, che ormai da un decennio lavora in Cina.
Hanno messo in pratica con grande efficienza quanto imparato dalla prima fase, e hanno potuto contare su una forte mobilitazione popolare. Hanno saputo introdurre lockdown ‘duri’ – durante i quali davvero non puoi mettere il naso fuori di casa e sei costantemente controllato –, ma mirati e circoscritti, col coinvolgimento di comitati di base, di quartiere e di condominio per fornire supporto a chi si è trovato chiuso in casa; mentre tutto il resto è potuto proseguire. Un approccio che ha a che fare con il forte potere del partito, ma anche con una cultura diffusa che privilegia molto la sicurezza rispetto alla libertà.
In parte, ma senza quella partecipazione collettiva, senza quell’adesione anche culturale non sarebbe bastato. In ogni caso, è vero che oggi senza le app che certificano i propri contatti e regolari misurazioni della temperatura corporea non si può entrare o andare da nessuna parte.
Io non credo. Ci sarà forse qualche caso che sfugge, ma francamente non ho visto morti per strada o altre scene del genere, come d’altronde mi pare confermato dalla stampa internazionale più autorevole. Oltre 500 milioni di persone hanno viaggiato attraverso il paese durante le festività della Settimana d’oro, dal primo al 7 ottobre, cosa impensabile se la situazione fosse molto più grave del dichiarato.
In quel caso si fa riferimento alla prima fase, dove in effetti si è reagito con una decina di giorni di ritardo, dovuto soprattutto alla sottovalutazione da parte delle autorità locali e alla scelta di lasciar svolgere i festeggiamenti del Capodanno cinese. Anche se poi il presidente Xi Jinping ha chiamato personalmente la popolazione a rispettare tutte le misure di sicurezza e ha avviato un rapido potenziamento delle strutture sanitarie. Poi, certo, la Cina si è sempre rifiutata di cedere alle richieste di una commissione d’inchiesta internazionale. Vivendolo come un confronto politico nella guerra di propaganda con gli Usa, ha alzato un muro e adottato la tattica del ‘pensate ai guai di casa vostra, noi l’epidemia la stiamo controllando’.
Dopo anni di servizi quasi esclusivamente privati, si è avuta una rapida conversione a una sanità pubblica e gratuita. Ma non è detto che una volta passato il virus si resti su questa posizione: per le riforme da tempo in discussione sembra prevalere chi preferisce un sistema misto ‘alla tedesca’.
Quei mercatini erano già proibiti prima della crisi, a differenza di quelli più convenzionali dove comunque gli animali – pesci, pollame – sono esposti vivi, perché così vogliono i clienti, e le misure igieniche sono state migliorate. I mercatini abusivi rimangono e si rivolgono alla borghesia nascente, che ritiene uno status symbol servire a tavola specie strane come il pangolino, a prescindere dal fatto che siano buone o meno. Tutto quello che per il suo esotismo richiama il dragone o la fenice – simboli fondamentali per l’immaginario cinese – è consumato proprio per questa sorta di ostentazione (non è vero però che i cinesi mangiano i pipistrelli: quello accade semmai nel Sudest asiatico, e anche lì molto di rado; certe specie si utilizzano piuttosto per i preparati della medicina tradizionale). A incentivare certo contrabbando è anche il fatto che con la loro caccia i contadini impoveriti riescono a guadagnare qualche soldo in più per il loro sostentamento.
In questo momento ce ne sono cinque diversi: due in Fase 3 della sperimentazione, tre già in corso di somministrazione alle persone a rischio, al personale sanitario, all’esercito, ai lavoratori delle dogane, a chi viaggia. Pare però che almeno uno di questi vaccini non generi anticorpi a sufficienza per immunizzare davvero, e comunque anche per gli altri occorrerà attendere per valutarne appieno l’efficacia. Intanto, la sola Sinopharm avrebbe già somministrato un milione di dosi. Naturalmente, si punta molto sullo sviluppo del vaccino anche per una questione di immagine internazionale, per passare da untori a salvatori.
Anche in questo caso si nota una certa ambivalenza della diplomazia cinese, che da una parte vuole usare i risultati anche per presentare il paese come grande potenza, dall’altra è ancora affezionata al ruolo di avanguardia dei paesi in via di sviluppo: per questo, mentre Donald Trump prometteva di comprare il vaccino per assicurarlo per primi agli americani, Pechino annunciava già di volerlo fornire anche alle nazioni asiatiche e africane, fondamentali per lo sviluppo della sua sfera d’influenza politica ed economica. Anche perché l’impegno nelle alleanze commerciali regionali rende sempre più difficile isolare la Cina dalle reti globali. Anche se ritengo che negli ultimi anni alla diplomazia economica non sia corrisposta una grande abilità in quella politica.
Sì, ed è interessante notare come questa possa essere un’opportunità per un’Europa che volesse smarcarsi da Washington e sviluppare relazioni autonome. Purtroppo, però, mi pare che l’Unione europea vada ancora a traino degli Usa, e le manchi comunque una voce unitaria e ben distinguibile.
Si tratta di una popolazione abituata a resistere, a stringere i denti e tirare avanti. In ogni caso il paese è in ripresa e si prospetta una crescita del Pil del 5% per quest’anno. La ripartenza è stata rapida e molto trasversale dopo la prima ondata, e la seconda non ha minacciato così tanto l’economia, mentre il fatto di passare dalle varie fasi della pandemia prima degli altri – la stessa seconda ondata su Pechino è di giugno – ha permesso di occupare con l’export i mercati lasciati sguarniti dai fornitori occidentali.
I pacchetti di stimoli pubblici previsti per il rilancio rischiano comunque di aumentare significativamente il debito pubblico, anche se potrebbero aiutare quei settori che il piano quinquennale dello scorso ottobre ritiene strategici, in particolare i consumi domestici e la tecnologia. Purché naturalmente non si traducano nelle ennesime colate di cemento. Un altro aspetto emerso negli ultimi giorni è la difficoltà di alcune aziende statali a livello locale, che in questo momento non riescono a ripagare i bond emessi in passato. Potrebbe essere un segno di crisi, ma anche della scelta da parte dello Stato di lasciar morire le imprese ritenute non produttive e poco strategiche.