pentole&potere

Nella cucina dei dittatori

‘Pol Pot era buono’, ‘Saddam generoso’, ‘Castro di poche pretese’. In un libro i ricordi dei cuochi di alcuni tra i più sanguinari tiranni del XX secolo

Il rapporto tra i dittatori e i loro cuochi fu spesso strettissimo
(Keystone/Twitter/LaRegione)
15 dicembre 2023
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L’eliminazione di un cuoco, ai tempi di Masterchef e delle lacrime a favore di telecamera, consiste in una teatrale cerimonia con un grembiule griffato riconsegnato ai giudici seguita da un ex perfetto sconosciuto che se ne torna a casa, a ricominciare la vita di prima o iniziarne una nuova, tra social e fornelli.

L’intimità del frigorifero

Nelle cucine di alcuni dei grandi dittatori del Novecento, l’eliminazione di un cuoco era un affare decisamente più serio, definitivo: a volte avveniva per un piatto troppo salato, altre per cospirazioni reali e presunte contro il potente di turno. La paura mista all’orgoglio di essere stati (e infine sopravvissuti) nelle cucine più temute del mondo è l’ingrediente principale di un libro, “Come sfamare un dittatore” (Keller editore), che osserva il potere da un luogo privilegiato, uno dei più intimi della vita di ciascuno di noi. D’altronde quel che dice un frigorifero del suo proprietario spesso non lo dicono nemmeno le altre due camere che dividono il pubblico dal privato, il bagno e la stanza da letto.

Partendo da cinque cucine e da sei cuochi, il giornalista polacco Witold Szablowski, racconta vizi, debolezze e persino qualche virtù di cinque uomini che il potere l’hanno esercitato fino a restarne ingoiati, ognuno a suo modo: Saddam Hussein, Enver Hoxha, Pol Pot, Idi Amin e Fidel Castro.

Bastano spesso poche righe per capire il rapporto tra gli chef di Stato e il loro datore di lavoro: del signor K., ad esempio, non si conosce l’identità perché a quasi 40 anni dalla morte del dittatore albanese Enver Hoxha, preferisce non apparire. Lui stesso ammette che per almeno 15 anni ha pensato che qualcuno l’avrebbe e ucciso. Oggi ha un ristorantino a Valona, la città da dove partivano i disperati che Xoxha, nel suo delirio, aveva creato nel Paese forse più simile alle fantasie distorte di un romanzo distopico.


Keystone
Erasmo Hernandez, cuoco di Fidel Castro, oggi ha un suo ristorante

Fratello Pouk

Poi c’è Yong Moeun, cambogiana innamorata a tal punto di Pol Pot (che lei chiama Fratello Pouk) da ripetere, a crimini commessi ampiamente svelati (e parliamo di milioni di morti e di una delle più feroci dittature di sempre), che il suo leader era “la bontà in persona”. Nel frattempo Yong Moeun è morta anche lei, ma nel libro sopravvive un racconto che poteva stare in piedi solo in quella Cambogia, come quando racconta che come primo piatto cucina a Pol Pot la tipica zuppa cambogiana per farsi benvolere e lui - l’autarchico per eccellenza - la disdegna perché preferisce mangiare thailandese.

Yong Moeun, sposata con un alto dignitario dell’Angkar, non perde mai occasione di mostrare la sua antipatia per la moglie del leader e anche della reciproca attrazione tra lei e Fratello Pouk. Per lui e per il partito era pronta a tutto, come quella volta in cui – richiamata in patria dalla Cina insieme al marito ambasciatore – si era convinta che sarebbe stata uccisa, come tutti coloro che venivano richiamati in quel determinato periodo. Avrebbe potuto restare a Pechino, protetta dal governo locale, invece tornò, dicendo che “se il destino che l’Angkar le aveva riservato era la morte, allora era perché me la meritavo”.

La dieta di Amin

Chi la morte l’ha sfiorata, dopo la soffiata di un amico che amico non era, è Otonde Odera, cuoco di Idi Amin, il dittatore che – si dice – mangiava il cuore dei suoi nemici. Odera dice che non sa se sia vero o no, ma quel che è certo è che lui esseri umani non ne ha mai cucinati, che della spesa si occupava lui e che in cucina nulla entrava senza il suo permesso.

Il cuoco di Amin ha avuto una di quelle vite da romanzo: scampato bambino all’attacco di un ippopotamo inferocito, ha conosciuto prima il clan degli Obama (quello da cui discende l’ex presidente americano Barack) e poi una coppia di europei che prima lo assunse per tosare il loro prato e poi come cuoco, anche se il cuoco non lo sapeva fare. Imparò in fretta e quando seppe che il presidente dell’Uganda Obote cercava un cuoco, si presentò direttamente a palazzo. Dovette presentare una zuppa con la coda di bue e un pudding di frutta secca, lo fece meglio di tutti e si sentì dire: “Cominci domani”. Quando il golpe portò al potere Amin cambiò quasi tutto, ma lui rimase al suo posto, e oggi va al mercato a comprare un pollo per poi cucinarlo esattamente come lo faceva per lui, che ne era ghiotto (e con una coscia di pollo in mano è stato anche ripreso in una delle sue foto più note).


Vaon
Yung Moeun, cuoca e confidente di Pol Pot

I fornelli e la guerra

Tra i più chiacchieroni c’è Abu Alì, il cuoco di Saddam, o meglio l’unico sopravvissuto dei sei cuochi di Saddam. Parla di tutto, delle donne del dittatore, dei figli viziati e malvagi, dei depistaggi che portavano a cucinare decine di pasti diversi che venivano tutti buttati, salvo uno, quello destinato a Saddam. Abu Alì, tramite un aneddoto su un viaggio a Mosca ai tempi di Gorbaciov, azzarda addirittura una spiegazione del perché nascono le guerre, partendo proprio dalla cucina: “In Unione Sovietica persino i cuochi si comportavano da cuochi di una superpotenza. Facevamo tutti da mangiare su una sola grande cucina a gas, ma ogni due per tre i russi spostavano le pentole. Non ne avevano bisogno, c’era abbastanza posto per tutti, ma erano fatti così. Il Paese sgomitava in politica e loro sgomitavano in cucina. Spostavano i propri tegami in modo da occupare anche lo spazio e i fornelli destinati a noi… appena lo facevano, mi avvicinavo e rimettevo il mio tegame al posto di prima. Non passava un istante che uno dei cuochi russi spostava di nuovo le pentole. Andò avanti per ore. Quella volta mi é venuto in mente che era proprio così che scoppiavano le guerre. Ognuno vuole tenere le sue pentole più vicine al fuoco”.

Abu Alì ricorda anche il carattere bizzoso di Saddam che aveva l’abitudine di farsi ridare indietro i soldi della spesa quando non trovava il cibo di suo gusto, magari giudicato troppo salato, salvo magari il giorno dopo ridare indietro il denaro con gli interessi al cuoco per un piatto a suo dire ben cucinato. E la cosa assurda “è che spesso il piatto era cucinato in modo identico, con la stessa quantità di sale”. La ricetta preferita di Saddam era la zuppa di pesce alla ladrona, quella di Fidel il ceviche. Enver Hohxa, invece, anche per problemi di salute, non era un commensale gourmet, ma il suo cuoco, il Signor K. capì esattamente cosa cercava in tavola, non il piacere, ma la sua infanzia: lì emerge quanto far funzionare il cervello, nella cucina di un dittatore, sia essenziale quanto saper usare coltelli e padelle. Sempre dai racconti albanesi emerge quel sottile confine tra verità, silenzi, bugie e mezze bugie che - a pensarci - si alternano nelle cucine di ogni famiglia.


Keystone
Saddam Hussein alle prese con un pentolone

Non resta che fidarsi

I due cuochi di Castro hanno invece avuto due destini talmente distanti da dimostrare, una volta di più, che lo stesso percorso può portarti in posti molto diversi: la povertà, l’indigenza e una sorta di demenza per Flores, la cui memoria è annebbiata a tal punto da non riuscire a finire né un discorso né una ricetta; la ricchezza, gli onori, la popolarità per Erasmo Hernandez, che in uno dei palazzi più belli dell’Avana cucina prelibatezze per chi se lo può permettere.

L’autore, alla fine del libro, ricorda anche che – nonostante il suo tentativo di verificare tutto il più possibile – certe cose, come i dialoghi tra i cuochi e i dittatori non possono essere confermati da nessuno. E quindi “non ci resta che fidarci dei cuochi, così come ci fidiamo di loro quando mangiamo ciò che cucinano”. Il sapore che resta in bocca è un po’ amaro, ma buono. E, a dispetto delle 300 pagine, si finisce in fretta.


Keller
La copertina di “Come sfamare un dittatore”

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