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Ottanta ‘Scatti’ di Marco D’Anna

Sono quelli di altrettanti ticinesi, ritratti dal fotografo nella quotidianità e raccolti in ‘un piccolo puzzle che un giorno qualcuno potrà far crescere’

Dal volume edito da Artphilein Editions. Nella foto, Fanny Senn
(Marco D’Anna)
15 novembre 2022
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Un paio di punti fermi, prima di cominciare. Il primo: «Lo scatto perfetto non esiste, è un pretesto per vivere la vita, per fare incontri, per conoscere il mondo, per invitare gli amici a vedere il tuo lavoro. La perfezione non è parte della vita. Non della mia, almeno». Il secondo: Chiara Ferragni non è "la fotografa del momento", come sostiene Oliviero Toscani. «Una provocazione. D’altra parte Toscani è stato il provocatore per eccellenza, vent’anni fa faceva baciare un prete e una suora, chi più di lui».

Sfogliamo ‘Scatti’ di Marco D’Anna, ottanta ritratti di ticinesi raccolti in un solido volume con il sostegno di BancaStato. "Gente del Ticino", sintetizza nell’introduzione Bernardino Bulla, presidente del Consiglio d’amministrazione dell’Istituto. Fu lui, lo scorso 17 ottobre, a fare le veci del fotografo nel presentare l’opera al pubblico; recuperiamo oggi l’occasione sfumata per parlare con D’Anna – assente quel giorno per motivi di salute – di uno spaccato di vita locale non elitaria, oggetto di più generale premessa: «Ho voluto che questo lavoro abbracciasse un po’ tutto il Ticino, uomini e donne, giovani e meno giovani, ma soprattutto persone non famose», ci dice il fotografo. «È stata la traccia che mi ha portato a questi incontri, molti dei quali casuali, alcuni suggeriti da amici e poi da me approfonditi. Viaggiando, mi sono trovato in situazioni che mi sono parse interessanti e che si sono aggiunte una dopo l’altra come ciliegine».

Da Atget a Donetta

Ottanta ritratti – fotografo incluso, autoritrattosi a fine libro – nello stentoreo bianco e nero che fissa l’attimo, immersi ognuno nella propria quotidianità, lineare o bizzarra, essenziale oppure (ordinatamente) caotica, in una bicromia che per alcuni è variopinta. Prima di conoscerli, conviene transitare dalla prefazione di Marco Franciolli, già direttore del Museo Cantonale d’Arte, del Museo d’Arte di Lugano e primo direttore del Masi, ora consulente artistico indipendente, calatosi sull’opera del D’Anna per darci almeno due spunti di discussione. Il primo, l’asse Eugène Atget-Irving Penn-Roberto Donetta, e in mezzo Nadar e August Sander, "maestri della fotografia" che "hanno rivelato (...) nuove possibilità per osservare donne e uomini da prospettive di volta in volta sociali, antropologiche o psicologiche"; asse lungo il quale D’Anna conferma di ritrovarsi, «soprattutto in Sanders, censurato dal Terzo Reich, e Donetta, due riferimenti sui quali ho costruito parte della mia cultura fotografica. Donetta per la vicinanza e la qualità del suo lavoro in tempi improbabili e lungo una vita difficilissima; Sanders perché ha realizzato capolavori fotografici attraverso il ritratto».

Il secondo spunto è la "dimensione empatica" nel rapporto tra fotografante e fotografato: «Ho viaggiato in tutto il mondo per vent’anni – prosegue D’Anna – imparando a interagire con culture diverse, con le diversità in generale, in Cina, Africa, Giappone, Sudamerica, obbligato a entrare in relazione con le persone nel massimo rispetto delle rispettive unicità. Sono certo che mi abbia aiutato a provare empatia con chi mi trovo davanti, e che questo accada in Ticino o in Giamaica poco cambia per me, mi muove sempre lo stesso rispetto verso l’altrove».


Marco D’Anna
Pietro Ferraro

Marinaio dentro

Dal 2004 al 2018, Marco D’Anna ha visitato ogni angolo di questo tondo pianeta con lo scrittore Marco Steiner sulle orme di Corto Maltese, le tracce che hanno ispirato il suo creatore, Hugo Pratt, per la saga ispirata al celebre marinaio. «Sono marinaio dentro, sono viaggiatore, un viaggiatore ribelle. Faccio fotografia da quarant’anni senza padrone, senza stipendio alla fine del mese. È la mia natura quella di remare controcorrente, una natura che si è sposata perfettamente col mondo di Corto Maltese, un anti-eroe, uno che va per la sua strada, in un rapporto anche qui empatico con un ideale, e col fumetto che raccoglie ideali che vivo appieno, e non m’invento».

Classe 1964, prima di esporre nel mondo, prima del ‘King of Photography’ del 2018, prima delle pubblicazioni – e prima di ‘Scatti’ – Marco D’Anna non è meno di altri il prodotto di una scelta, ma la sua è un po’ più scelta delle altre: «Un giorno mio padre mi dice: "Siete due fratelli, uno può studiare, l’altro deve lavorare". Mio fratello ha fatto carriera ad alto livello nella ricerca, mio padre ci aveva visto bene, e io mi sono dovuto trovare un lavoro». Senza che in casa D’Anna si sia mai parlato d’arte, la fotografia arriva all’improvviso: «Mi si è cucita addosso come il miglior vestito che mai avrei potuto scegliere. E grazie alla fotografia ho potuto avere una vita eccezionale».

Anche le immagini sono eccezionali: ‘Project Corrida’ (2011-2013) è la riproposizione, cinquantaquattro anni più tardi, del viaggio di René Burri nel mondo della corrida, un progetto audiovisivo che ha visto Burri e D’Anna, affiancati, in prima mondiale al Locarno Film Festival del 2011. Più recentemente, del ticinese, la Buchmann Gallery ha esposto la musica: «Avevo sedici anni, Jacky Marti e Andreas Wyden videro le mie prime fotografie pubblicate sul Giornale del Popolo, dove ero apprendista». Estival Jazz, di cui D’Anna è il fotografo ufficiale da quarant’anni, è l’unico lavoro fisso della sua vita, «gli unici tre giorni l’anno costanti nel tempo. Grazie a Estival, ascoltando i concerti in piazza mentre lavoravo, ho imparato ad apprezzare la musica e la mia cultura musicale è cresciuta. A sedici anni non ne avevo alcuna, men che meno di jazz». La mano di Chick Corea che spunta da un pianoforte nero, quella di Noa sul cuore, gli anelli e i braccialetti d’oro di Miles Davis, a guardarli bene, sono assoli. Ma questa è un’altra storia.

Che sia il telefono o i sali d’argento

C’è una linea, simile a quella con la quale Hugo Pratt avrebbe voluto dire tutto, che lega quest’opera ad altre. È Pierre Casè, appoggiato al suo bastone, in vita il lungo grembiule coi segni del mestiere, a un quarto di libro: «È stato per me un amico, ho fatto due libri con lui, su di lui. Era un artista che stimavo molto e con il quale ho avuto un rapporto di profonda sintonia». Il fotografo l’ha detto sere fa davanti a Mario Botta, nella sua Accademia di Architettura: «‘Scatti’ è dedicato a Pierre».

Casè, artigiano della creatività, apre a una riflessione conclusiva sulla fotografia come artigianato, travolta dalla rivoluzione digitale che ci ha resi tutti, indegnamente, fotografi. «Il cambiamento è stato epocale, la fotografia è diventata ancor di più alla portata di tutti, il che può essere un vantaggio o uno svantaggio. La fotografia è uno strumento, ha una sua semantica, dipende da come la si utilizza: puoi dare una penna in mano a qualcuno e ti può restituire una Divina Commedia, oppure dei segni incomprensibili. Accade lo stesso con una macchina fotografica: serve coscienza di ciò che si fa, e la fotografia digitale può diventare bellissima o banale». Un altro punto fermo: «Ciò che è determinante è cosa hai da raccontare, che tu lo faccia con il telefono o con i sali d’argento».

Memoria

E siamo arrivati alla fine. Abbiamo parlato di ‘Scatti’, ottanta ticinesi di età varia su di una popolazione di circa 351mila unità, dati dell’Ufficio federale di statistica; inutile chiedere se ne sia rimasto fuori qualcuno, o se ci sarà uno ‘Scatti 2’: «Ce ne vorrebbero 8mila, 80mila di scatti. Il mio è un piccolo pezzo di un puzzle che magari un giorno qualcuno potrà far crescere, con un altro interlocutore, se non con una banca, per comporre la visione soggettiva di qualcosa che può essere importante quando si parla di memoria».


Marco D’Anna in Cambogia

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