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Accordo quadro, l’Usi teme un colpo alla ricerca

La crisi del negoziato metterebbe a rischio il reclutamento e la partecipazione a progetti d’eccellenza

(Ti-Press)
8 giugno 2021
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«Questa incertezza ha già iniziato a danneggiarci, lo vediamo con le discussioni in corso per il reclutamento di direttori di laboratorio presso gli istituti di ricerca di Bellinzona; col fallimento dell’accordo quadro l’ingaggio di docenti e ricercatori sta diventando più difficile, perché molti – anche elvetici – sono titubanti: temono di finire a lavorare su una piazza accademica tagliata fuori dall’Europa, quindi dalla ricerca che conta». Il Rettore dell’Università della Svizzera italiana (Usi) Boas Erez è molto preoccupato dalle ripercussioni del mancato accordo su insegnamento e ricerca, anche se formalmente questo ambito non è parte dei negoziati attualmente decaduti: «Le trattative con Bruxelles non si possono separare le une dalle altre, è chiaro che la scarsa volontà politica di Berna verso l’Unione europea rischia di scontrarsi con nuovi ostacoli che freneranno anche la ricerca». 

Fuori dalla Champions

E poi, appunto, c’è l’incertezza sul futuro che congela scambi e investimenti accademici. La stessa cosa già vista nel Regno Unito dopo la Brexit, come ricorda il Delegato del rettore per l’analisi della ricerca Benedetto Lepori: «Abbiamo effettuato uno studio proprio sulla Brexit – uno studio empirico, perché dobbiamo guardare alla realtà e non ai nostri desideri – e i dati non lasciano dubbi: prima ancora di uscire ufficialmente dall’Unione europea, le università inglesi avevano già perso il 20-30% delle partecipazioni ai programmi comunitari e la maggior parte dei ruoli più prestigiosi, quelli di coordinamento dei progetti. Un danno che rischia di vedersi anche in Svizzera, specie considerando il fatto che dopo la fine dell’accordo non è ancora stato formalizzato un piano B». Se non si trova una soluzione, prosegue Lepori, «dovremo lasciare quella che è a tutti gli effetti la Champions League della ricerca, una dimensione talmente grande, forte e interconnessa che uscirne fuori sarebbe disastroso».

Erez teme a sua volta per il Ticino, perché «quando si è una regione periferica, è meglio esserlo nel cuore dell’Europa invece che ai suoi margini. Con il nuovo campus in biomedicina, ma anche col potenziamento di tutte le altre facoltà stiamo recuperando solo ultimamente il ritardo storico rispetto a oltre Gottardo. Potremmo andare incontro a una dolorosa battuta d’arresto». Gli fa eco il Prorettore per la ricerca Patrick Gagliardini: «Al di là dell’enorme investimento internazionale – parliamo di 100 miliardi in sette anni solo per il programma di ricerca Horizon Europe – c’è l’importanza di fare parte di una rete d’eccellenza. La ricerca è un’attività internazionale, anche se le ricadute sono allo stesso tempo molto locali: penso a tutti i posti di lavoro a elevato valore aggiunto creati nel nostro Cantone». Concorda Erez, per il quale «la sovranità in questo ambito, a differenza che in quello delle libertà personali, è già da tempo un’utopia. Noi in Europa dobbiamo esserci».

Non si tratta solo di soldi

Sono più di 40 – sugli oltre 200 cui partecipa l’Usi – i progetti europei che coinvolgono il Ticino, con fondi da Bruxelles per trenta milioni di franchi (su un centinaio totali); cifre in aumento, dato che programmi ambiziosi come Horizon Europe mirano a intensificare ulteriormente l’investimento continentale. L’Usi ha anche ricevuto oltre 20 borse d’eccellenza dal Consiglio Europeo delle Ricerche. «Ma qui non si tratta solo di fondi», aggiunge Erez, «quanto di impegnarsi per partecipare alla condivisione di risorse comuni, anche dal punto di vista strutturale e umano. È così che anche in Ticino si possono accogliere più ricercatori e professori più preparati: accedendo a programmi rigorosissimi e di assoluta qualità, gestiti in maniera trasparente sulla base di criteri quali la qualità scientifica e la rilevanza per la società intera». Impossibile, per il Rettore, pensare di aggrapparsi piuttosto a collaborazioni una tantum o a partner diversi quali gli Stati Uniti, il Giappone e la Cina: «Si tratta di canali molto ristretti. La forza della dimensione accademica europea è data dalla sua ampiezza e profondità, da economie di scala e un potenziale innovativo che costituiscono anche un interesse politico comune, nella competizione sul piano globale».

L’appello è insomma a riprendere il dialogo al più presto, com’era in parte successo nel 2014 dopo la votazione che limitava la libera circolazione: «In quel caso ad esempio si era subito trovato un piano B per salvaguardare la partecipazione ai programmi di ricerca europei», ricorda Erez. «Speriamo che lo stesso possa essere fatto questa volta. Ma ci vorrà molto di più per salvaguardare la complessità del nostro ruolo nell’accademia europea. Purtroppo, l’impressione finora è che il Consiglio federale abbia incredibilmente sottovalutato questo problema».

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