Svizzera

Per una politica della panchina in Svizzera

Onnipresente, eppure parente povero della pianificazione urbanistica. A colloquio con la sociologa Renate Albrecher, fondatrice dell’associazione Bankkultur

‘Le panchine sono le stazioni di servizio dei pedoni’
(Keystone)
21 agosto 2021
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Pianificatori e amministratori locali spesso riducono la panchina a mero oggetto accessorio, statico, dell’arredo urbano. Cenerentola della pianificazione urbanistica, tanto quanto il pedone lo è delle politiche di promozione della mobilità, la panchina raramente viene considerata per quello che è (o meglio: che potrebbe essere): un invito ad abitare lo spazio pubblico, ad appropriarsene; così come un ingrediente essenziale della mobilità lenta. «Le panchine sono le stazioni di servizio dei pedoni. E qualsiasi pianificazione degna di questo nome dovrebbe tenerne conto», afferma la sociologa Renate Albrecher, assistente presso il Laboratorio di sociologia urbana del Politecnico di Losanna (www.epfl.ch/labs/lasur) e fondatrice nel 2016 dell’associazione Bankkultur (www.bankkultur.ch), che mappa le panchine pubbliche in Svizzera (cartina visibile al link https://segreti-pancari.ch).

Renate Albrecher, abbiamo un numero sufficiente di panchine in Svizzera?

La situazione è molto diversificata. In alcuni luoghi ne troviamo un po’ ovunque, in altri invece mancano. Come sociologa, queste disparità – tra una regione e l’altra, ma anche tra un comune e l’altro all’interno di una stessa regione – mi interpellano. Per quanto mi riguarda, ad ogni modo, le panchine non sono mai abbastanza. Perché rispondono a una molteplicità di bisogni.

A quelli delle persone anziane, anzitutto.

Sì, è vero. Molti anziani hanno un’autonomia ridotta, 150-200 metri: in pratica possono camminare solo laddove ci sono delle panchine. Spesso però si dimentica che non sono solamente loro ad usufruirne. Anni fa, quando cominciai a interessarmi alla questione, qualcuno mi chiedeva perché volessi fare un progetto in primo luogo sugli anziani. Le panchine sono importantissime per questa categoria di persone, non c’è ombra di dubbio. Ma lo sono anche per i bambini piccoli, gli adolescenti e gli adulti più o meno giovani. I bisogni sono molteplici: c’è ad esempio chi vuole la panchina ‘sociale’, con tanta gente in giro, chi è alla ricerca di tranquillità e la vuole in luoghi discosti, e così via. Per rispondere a una tale diversità di bisogni, dovremmo avere non solo una densità molto alta di panchine, ma anche una maggior varietà di tipologie.

Una panchina non è semplicemente una panchina?

Effettivamente, questo cliché della panchina stile Haussmann, tipica dei parchi pubblici della Parigi del diciannovesimo secolo, resiste. In buona parte delle città, il modello ancora oggi è più o meno quello. A volte però queste panchine sono giudicate troppo ingombranti. E così capita che, piuttosto che posarne una o mantenerla, si preferisca semplicemente rinunciarvi o rimuoverla, quando invece i bisogni – sedersi un momento, appoggiare lo zaino, la borsa della spesa, eccetera – richiederebbero altre risposte. Risposte che devono essere per forza di cose diversificate: perché ad esempio c’è chi necessita di braccioli per sedersi e rialzarsi, chi invece non li vuole perché altrimenti non si può sdraiare; c’è chi vuole uno schienale per potersi appoggiare e mettere comodamente il computer sulle proprie ginocchia, chi invece non lo vuole… La panchina perfetta, definitiva, non esiste. La perfezione sta nella pluralità, nell’apertura dell’immagine e dello spirito della panchina.

Insomma: una panchina non soltanto per sedersi, riposare e ammirare il paesaggio.

Appunto: viene utilizzata anche per schiacciare un pisolino, leggere, lavorare, mangiare e tanto altro. Quel che succede su una panchina è incredibile! Le panchine poi hanno una rilevanza anche sul piano collettivo, in quanto strumenti che permettono alle persone di appropriarsi dello spazio pubblico. Si tratta infatti di un oggetto che facilita la mobilità pedonale e la fruizione turistica. Le panchine invitano ad abitare un luogo attraverso dei ‘micro-soggiorni’. In questo modo, un luogo non è più semplicemente uno spazio da attraversare da un punto A a un punto B.

Lei sta indagando il loro ruolo nella promozione della mobilità pedonale in alcuni comuni ginevrini e a Losanna. Cosa sta scoprendo?

Trovo interessante, per certi versi sorprendente, che tra i fruitori delle panchine non vi sia una chiara maggioranza di anziani. La metà degli utilizzatori è composta da adolescenti maschi e uomini. Abbiamo osservato poi che, per un certo numero di persone, le panchine rappresentano una tappa pianificata delle loro uscite a piedi, quando non la meta finale o la motivazione per uscire di casa. Per noi si tratta anche di capire qual è il grado di consapevolezza riguardo all’importanza delle panchine nella mobilità pedonale. In generale, si può dire che – fatta eccezione per le persone anziane – questa consapevolezza non è molto pronunciata, né molto diffusa. Le panchine spesso vengono date per scontate. Quando chiedi alle persone come le utilizzano, dicono quasi tutte la stessa cosa: stanno lì perché uno vi si sieda sopra e ammiri il paesaggio. Ma se vai più a fondo, se parli con loro, allora scopri che uno si è seduto lì perché – ad esempio – aspettava sua moglie. Gli utilizzatori stessi se ne rendono conto soltanto a questo punto, e questa presa di coscienza cambia sia la percezione che hanno delle panchine, sia le modalità di fruizione.

Obiettivo dichiarato del progetto è “gettare le basi di una politica della panchina”, quest’oggetto “onnipresente nello spazio pubblico, ma sconosciuto”. Cosa si intende?

L’idea è quella di pensare la città attraverso gli spazi per sedersi, disporre di un ‘seating concept’ per la città intera. Evitando così di ragionare e pianificare pezzo per pezzo, a compartimenti stagni: qui una piazza o un parco con le sue panchine, là un’altra piazza con le sue panchine, ma tra le due nessun legame concettuale, nessuna continuità. Le panchine sono un po’ le stazioni di servizio dei pedoni. E qualsiasi pianificazione degna di questo nome dovrebbe tenerne conto. A Monaco stiamo realizzando un progetto pilota che consente agli abitanti di chiedere alle autorità cittadine dove vorrebbero veder posata una panchina, perché la vogliono proprio lì; oppure se le panchine esistenti vanno bene: perché averne una non basta, bisogna anche che sia funzionale, altrimenti viene disertata; e a volte basta girarla di 90 gradi o spostarla di un paio di metri affinché lo diventi.

I cittadini solitamente non vengono coinvolti, sono gli uffici tecnici comunali ad avere il boccino in mano.

In effetti è così. Per questo, nell’ambito di un progetto europeo, analizzeremo anche i processi decisionali nelle città. Cercheremo di capire dove si situano le priorità, chi le stabilisce e sulla base di quali bisogni. Le ipotesi sono che a decidere sulle panchine siano perlopiù persone che non ne hanno bisogno, e che le decisioni siano prese in seno a una cerchia ristretta (tra l’urbanista, i funzionari e i politici locali che occupano i posti chiave), mentre gli utilizzatori – che peraltro non possono contare su una lobby della panchina – rimangono esclusi. L’idea è di elaborare una sorta di cassetta degli attrezzi a disposizione dei comuni, affinché i ‘seating concepts’ diventino parte integrante dei piani di mobilità lenta e della pianificazione urbanistica.

La realtà però è che la panchina – non meno delle toilettes pubbliche, delle fontane o di altre componenti del cosiddetto ‘arredo urbano’ che facilitano la vita ai pedoni – è un po’ la cenerentola della pianificazione urbanistica. O ci sbagliamo?

È vero. Per quanto riguarda le toilettes pubbliche, le considero almeno altrettanto importanti delle panchine nell’ottica della promozione della mobilità pedonale. Se devo tirare il fiato, far riposare le gambe, bene o male trovo sempre un posticino dove sedermi. Invece, se ho un bisogno impellente non lo posso espletare ovunque; e se so di dover camminare a lungo fino alla prossima toilette pubblica, magari con le borse della spesa, la cosa diventa difficile. Senza dimenticare poi che è molto più imbarazzante chiedere a un passante se c’è un wc pubblico nelle vicinanze. È come per le panchine: chi ne ha davvero bisogno non ha una lobby che difenda i suoi interessi.

Com’è mutata la fruizione delle panchine durante la pandemia?

Da più di cinque anni, ogni volta che ci passo davanti, fotografo due panchine vicino a casa mia. Prima della pandemia, una delle due – mal posizionata, malgrado si trovi all’ombra di un albero – era sempre libera. Dal marzo dello scorso anno, invece, la vedo quasi sempre occupata. Dal mio piccolo osservatorio constato un aumento nell’utilizzo delle panchine. E questo nonostante queste siano diventate uno dei simboli del semi-confinamento. Nell’ultimo anno e mezzo ho visto infatti innumerevoli fotografie di panchine vuote, smontate, rimosse, disinfettate o sbarrate da nastri di plastica che ostruivano l’accesso. Allo stesso tempo in Svizzera – dove non abbiamo vissuto un confinamento rigido come in Francia – la panchina è diventata il luogo degli incontri. Ho incrociato diverse persone mentre sorseggiavano il caffè sedute sulla panchina davanti alla loro abitazione, anziché restando all’interno. Durante la pandemia la voglia di vedere altre persone è cresciuta, e la panchina era uno dei pochi luoghi che consentivano di soddisfarla.

Ha una sua panchina preferita?

Più che una panchina, è un luogo non lontano da dove vivo: un lembo di terra che forma una piccolissima penisola nel lago Lemano, e dove ci sono delle panchine rivolte in tre direzioni. Sono piuttosto ben frequentate, ma un posto libero lo trovo quasi sempre. Comunque posso dire di amarle tutte, le panchine.

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