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Addio a Jongbloed, il portiere volante dell’Olanda di Cruyff

Precursore del calcio moderno, più bravo con i piedi che con le mani, era un semiprofessionista che gestiva una tabaccheria. Giocò due finali Mondiali

Jongbloed superato dal pallone nella finale del Mundial 78 con l’Argentina
(Keystone)
31 agosto 2023
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In un’intervista rilasciata alla tv olandese Nos, Jan Jongbloed guarda una sua foto da giovane con addosso la maglia da portiere gialla: “La indossavo quasi sempre di quel colore perché non mi ricordo quale allenatore mi disse che il giallo attirava chi aveva il pallone”. Più che i palloni, però, quella maglia attirava stranezze, o forse era lui a farlo.

Jongbloed, morto oggi a 82 anni, era una specie di calamita di aneddoti e accadimenti al limite dell’incredibile (talvolta anche lugubri), storia esemplare di quanto il caso domini le nostre vite, di essere umano con cui Dio (per dirla alla Einstein) si è messo a giocare a dadi.

Fuori lista

Tanto per capirci: siamo qui, e non siamo i soli, a parlare della carriera di un portiere che non appare in nessuna classifica dei migliori di ogni tempo. Andate su internet, cercate: nella classifica ufficiale della Iffhs (la Federazione internazionale di storia e statistica del calcio) non c’è, perché iniziò a monitorare i portieri dal 1987. E la sua carriera terminò nel 1986.

Ma non troverete il suo nome in nessuna Top 10, Top 50 o Top 100. Ho trovato una Top 150, ci sono nomi che non ho mai sentito o che sono solo un eco lontano (Carbajal, Beara, Swift, Scott, Nicolay, Manga…): quello di Jongbloed non c’è. Nella lista dei 100 più attendibile ci sono quattro olandesi, ma non lui. Uno dei quattro, Jan Van Beveren, è quello a cui Jongbloed soffiò il posto in ben due Mondiali, con due allenatori diversi, per motivi che col parare un pallone c’entrano fino a un certo punto.

Non fu incluso nemmeno nella lista – apparentemente più abbordabile – dei 100 migliori giocatori olandesi del quotidiano Het Parool (e in quel caso se la prese anche un po’, dicendo che era “uno schifo”). Jongbloed era irrequieto tra i pali, innegabilmente sgraziato e bastian contrario: in un’epoca in cui i portieri iniziavano a mettere tutti quanti i guanti, lui preferiva farne a meno, sostenendo che “sennò non ‘sentiva’ il pallone”.


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In uscita acrobatica nel campionato olandese

Quella finale maledetta

Giocò senza guanti anche la disgraziata finale persa dai Paesi Bassi contro la Germania, nel 1974. Una partita in cui gli olandesi guidati in panchina da Rinus Michels e in campo da Johann Cruyff segnarono il primo gol dopo aver battuto il calcio d’inizio senza nemmeno far toccare il pallone ai tedeschi. Avevano incantato con il loro gioco sfrontato per tutto il Mondiale eppure finì 2-1 per gli altri. Il gol del definitivo vantaggio dei padroni di casa fu l’unico preso da un avversario su azione da Jongbloed in tutto il torneo: subì nei gironi un autogol di Krol e, in finale, il rigore dell’1-1 di Breitner, su cui nemmeno si buttò. Diceva che quando capiva che era inutile tuffarsi, si evitava lo sforzo.

Quel gioco sfrontato si poté fare proprio grazie a Jongbloed, portiere venuto dal futuro, scelto dal Ct Michels per il suo tempismo nelle uscite – anche fuori dall’area – in un’epoca in cui i suoi colleghi sembravano incollati alla riga di porta. E scelto da Mister Ajax Cruyff, la cui influenza non solo sul gioco, ma anche sulle convocazioni era nota. Lui, quello che parava meglio – Van Beveren (che giocava per i rivali del Psv Eindhoven) – non lo poteva proprio vedere. E complice un infortunio all’inguine sulla cui gravità si ricamò a lungo, alla fine il Mondiale lo giocò Jongbloed. Convocato anche da Ernst Happel nel 1978, il portiere sgraziato giocò e perse anche la finale del Mondiale argentino. In entrambi i casi portava sulla schiena la maglia numero 8 in tempi in cui i portieri avevano o l’1 o il 12 d’ordinanza. Ribelle? Un po’ matto, come vuole uno dei luoghi comuni sui portieri? Nient’affatto. Il caso, di nuovo, o meglio l’ordine alfabetico: così assegnò i numeri l’Olanda, dalla A alla Z, con una sola eccezione (il 14 per Cruyff, in Germania, perché in Argentina non andò). Lui, quando poi gliel’hanno chiesto, disse che avrebbe scelto l’1.


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Un rapporto di amore e odio con i guanti

Dodici anni in attesa

Jongbloed, che aveva esordito con la Nazionale – per soli 5 minuti – nel 1962 contro la Danimarca, dovette aspettare dodici anni e 70 partite per tornare in campo con gli Oranje. Giocherà in tutto 24 gare, di cui la metà ai Mondiali. Il primo da titolare, a 33 anni, il secondo da titolare che fece in tempo a perdere il posto – dopo una sciagurata sconfitta 3-2 con la Scozia, in cui fu usato come capro espiatorio – per poi tornare tra i pali dopo l’infortunio di Schrijvers, colpito involontariamente al volto da un compagno contro l’Italia.

Si dice – perché poi con uno così va a finire che se ne dicono tante – che dopo il Mondiale tedesco rifiutò l’offerta di passare professionista all’Ajax perché giocare per i lancieri avrebbe voluto dire avere un giorno di allenamento in più e rinunciare alla sua giornata dedicata alla pesca con la canna, l’hobby di cui proprio non poteva fare a meno.

Due volte in campo in una finale Mondiale, Jongbloed non ha mai giocato per un grande club. Per 13 anni è stato al Dws Amsterdam Fc. Dws sta per Door Wilskracht Sterk: e quindi, tradotto, il club si chiamava “L’Amsterdam Fc è forte grazie alla forza di volontà”, con cui vinse un campionato olandese da neopromossi: altra rarità.

Quando la squadra diventa Amsterdam Fc e basta, lui resta altre cinque stagioni, poi passa al Roda e ai Go Ahead Eagles, dove gioca fino a 45 anni, fermato solo da un infarto. Quando nel 1986 chiuse con 717 gare disputate era il giocatore con più presenze della storia del campionato olandese: lo è ancora. Nel 1984 a difendere la porta del suo Dws Amsterdam, c’era invece il figlio Eric, morto in campo colpito da un fulmine mentre calciava una rimessa dal fondo. Aveva 21 anni.

Il secondo lavoro

Jongbloed per molti rimarrà il “tabaccaio”, il suo altro lavoro, che non mollò mai, nemmeno all’apice della popolarità. Il suo negozio c’è ancora, come restano i video delle sue parate che vere e proprie parate non sono. Non c’è mai una presa sicura, come se gli fosse vietato per regolamento bloccare al primo tentativo. Ribatte, smanaccia, respinge, spesso in qualche modo recupera il pallone in due tempi. A volte sembra che quei palloni pesanti degli anni Settanta nelle sue mani diventino palloni da spiaggia.

A un certo punto c’è un suo salvataggio, in quattro tempi, dove non blocca mai: respinge tre volte, poi con una specie di mossa a metà tra la pallapugno e la pelota basca rilancia la palla fuori dall’area con un colpo di polso. Nella finale dei Mondiali del 1974 esce di testa oltre il limite dell’area anticipando per un soffio un attaccante tedesco (e di 40 anni, un altro portiere, tedesco, Manuel Neuer, che si specializzerà in questo tipo di uscite). Sempre con la Germania sventa un gol, rigorosamente in due tempi, prende velocemente il pallone e – al posto di cullarlo tra le braccia per decine di secondi, come facevano tutti gli altri – se lo mette tra i piedi e fa ripartire subito l’azione.

Poi dici perché – pur rimanendo fuori da ogni classifica – ancora oggi resiste il mito di Jongbloed, il portiere tabaccaio, quello col numero 8 che non ci pensò due volte a scegliere tra l’Ajax e la sua canna da pesca.

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