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Addio a Pelé, il Big Bang del calcio

Il migliore di tutti i tempi? Forse sì, forse no, ma chissenefrega. Tutto quel che ci fa stropicciare gli occhi del calcio di oggi, lui l’aveva già fatto

Pelé era nato a Três Corações il 23 ottobre 1940 (Keystone)
30 dicembre 2022
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Três Corações potrebbe essere una città immaginifica uscita dalla penna di Jorge Amado, scrittore brasiliano che solo a leggere i titoli dei libri senti odore di Sudamerica: "Cacao", "Gabriella, garofano e cannella", "Jubiabà" "Dona Flor e i suoi due mariti". Ma Três Corações esiste davvero: lì, il 23 ottobre 1940, nasceva un bambino dal nome lunghissimo, Edson Arantes do Nascimento, morto ieri con un nome cortissimo conosciuto in ogni angolo del pianeta: Pelé.

L’unico calciatore della storia capace di vincere tre Coppe del Mondo (1958, 1962 e 1970). E ancora oggi il più giovane marcatore della storia dei Mondiali, ad appena 17 anni e 239 giorni, il più giovane autore di una tripletta, il più giovane a segnare in una finale, per di più una doppietta. Tutti record realizzati nel 1958 in Svezia, nel Mondiale che aveva promesso al padre di vincere per lui otto anni prima, nella tragica serata del Maracanazo.

Figlio e vendicatore del Maracanazo

Suo padre, l’ex calciatore Dondinho, scoppiò in lacrime dopo l’inattesa sconfitta del Brasile, a Rio de Janeiro, contro l’Uruguay. I brasiliani giocavano in casa: bastava un pareggio, perché quella non era proprio una vera finale, ma l’ultima partita di un girone. Vincevano 1-0. Persero 2-1. Indossavano maglie bianche, i brasiliani: da quella sera non più.

Quella vergogna nazionale portò a indire un concorso. Vinse la maglia disegnata da uno studente di 19 anni: era verde-oro come quella che Pelé indosserà per la prima volta il 7 luglio del 1957, contro l’Argentina, proprio al Maracanà, lo stadio del disastro. Il Brasile perse ancora 2-1. Ma, neanche a dirlo, Pelé esordì con un gol diventando il più giovane marcatore della storia della nazionale brasiliana ad appena 16 anni e nove mesi. Un record tuttora imbattuto, come quello del maggior numero di gol segnati con la maglia verdeoro: 77 in 92 presenze (questo sarà presto battuto da Neymar, che è arrivato a 77 nei quarti dell’ultimo Mondiale contro la Croazia). Si è già capito, basta mettere il "calciatore più" o "il primo calciatore a" e poi aggiungere un record: la risposta sarà quasi sempre Pelé.


La rovesciata, resa poi celebre in "Fuga per la vittoria" (Keystone)

E dire che quel nomignolo, appiccicatogli addosso da bambino dai compagni di giochi, a lui non piaceva. In famiglia lo chiamavano Dico, lui invece andava orgoglioso di Edson, che è la storpiatura di Edison, un omaggio all’inventore della lampadina. Pelé è invece la storpiatura di Bilé, una gloria locale che giocava in porta nella squadra di suo papà.

Il piccolo Edson, che se la cavava anche tra i pali, si paragonava spesso a Bilé, pronunciando però male la prima lettera. Fu così che gli amici, per sfotterlo, iniziarono a chiamarlo prima Pilé e poi Pelé. A lui non andava giù a tal punto da arrivare a fare a botte. Ma il nome rimase e lui, evidentemente, ci sapeva fare più con i piedi che con i pugni. Quanto ci sia di vero in questa storia non è mai stato chiaro, proprio come quella del padre in lacrime dopo la sconfitta con l’Uruguay. Ma se la carriera di Pelé parla per lui, il resto – come per tutti i miti – è un atto di fede.

"Menino de rùa"

Nel racconto dell’infanzia del futuro tricampione del mondo non manca nulla che non possa essere estratto dal manuale perfetto del "menino de rùa" in cerca di riscatto: le monetine guadagnate come lustrascarpe, le partite giocate con un mango, un pompelmo o una palla fatta di carta e calzini.

Dopo qualche anno tra i ragazzi del Bauru, viene portato al Santos, dove rimarrà per diciannove stagioni. Nella gara d’esordio, finita 7-1, Pelé ha 15 anni. Entra e, ovviamente, segna ("il più giovane…", la solita storia). Continuerà a farlo sino a entrare, passando da riserva a stella, tra i convocati del Mondiale di Svezia, dove infrangerà tutti i record. Guadagna una maglia da titolare nella partita dentro o fuori con l’Unione Sovietica assieme a un altro giovanissimo, un certo Garrincha, il re degli irregolari, quello con le gambe storte e poi una vita alcolica e stortissima. Dal campo non usciranno più. Mai più. Garrincha, sulla fascia, fa sembrare gli avversari dei marinai improvvisati in balia di una mareggiata. Pelé è una macchina da gol: ne segna uno al Galles, tre alla Francia, due nella finale con la Svezia finita 5-2. È nata la Perla Nera. È nato O Rei. Il Re.


Pelé e Maradona insieme in un murale a San Paolo (Keystone)

Con il Santos vincerà sei campionati brasiliani, due Libertadores e due Coppe Intercontinentali (contro Benfica e Milan): sarà suo, ma un po’ meno, anche il Mondiale del 1962 in Cile, dove – causa infortunio – giocò solo le prime due partite.

Biglietti da visita speciali

Nel frattempo, José Zaluar, prima vittima di O Rei, pensò bene di guadagnarsi un po’ di notorietà facendosi fare dei biglietti da visita fantasiosi: "L’uomo a cui Pelé fece il suo primo gol". In un’occasione fu proprio il numero 10 a difendere la porta del Santos contro il Gremio: in palio c’era l’ingresso alla finale del campionato. Il Santos stava vincendo 4-3 quando il portiere fu espulso. Toccò a Pelé, che aveva appena segnato tre gol, prendersi la responsabilità di sostituirlo. Andò bene. Ci sono le foto di quel giorno: lui, con la maglia scura, mentre tiene il pallone in mano tra gli avversari. Abbiamo le prove. Il resto, compresi i 1281 gol (in 1363 partite) che farebbero di lui il più grande marcatore della storia, desta qualche dubbio. Nell’eterna disputa su chi sia stato il migliore di sempre, si prende per buona tutta la mitologia creata intorno a Pelé. Ma le reti ufficiali sono "solo" 784, 761, 767, 757 o 763 a seconda di chi scrive. Insomma, nessuno è riuscito a tenere il conto. Un’enormità in ogni caso, ci mancherebbe. Ma nel mucchio finiscono amichevoli e partite giocate nei tour internazionali. Già, perché il Santos - grazie alla sua popolarità - era diventato un’attrazione globale, una sorta di Harlem Globetrotters del pallone. E l’aura di Pelé è stata trasversale e luminosa quanto quella di Mohammed Ali e pochi altri.

O Rei, che amava alimentare il mito di stesso, raccontò anche di un’esibizione in Colombia in cui l’arbitro osò espellerlo, ma le urla inferocite di compagni, avversari e pubblico costrinsero il malcapitato fischietto a lasciare il 10 in campo e ad andarsene lui. Per vedere il suo Santos giocare a Lagos, Nigeria e Biafra, che erano in guerra, stabilirono un cessate il fuoco di 48 ore. Tutti andavano matti per Pelé, a tal punto che, nel 1961, il Brasile decise di renderlo, con un atto governativo, "patrimonio nazionale". Da quel momento le squadre che si erano messe in fila per acquistarlo (Juventus, Real Madrid, Manchester United e Inter, quella che ci arrivò più vicina) dovettero arrendersi. L’unica altra maglia che indosserà - un anno dopo il ritiro con il Santos - sarà quella dei New York Cosmos. La vestirà per tre stagioni fino al ritiro definitivo nel 1977, portando per la prima volta il "soccer" all’attenzione degli altri americani, quelli che hanno deciso di tenere tutto il nome di un continente per sé.


Con la maglia del Cosmos (Keystone)

Non diventò mai allenatore, quasi a non voler sporcare quella carriera perfetta in campo. Fu dirigente, ambasciatore dell’Onu e del Comitato Olimpico, e anche ministro dello Sport brasiliano. Non lasciò mai il segno, ma nemmeno è passato inosservato: impossibile per uno come lui. E sbagliò i pronostici in ogni Mondiale.

E se di Maradona (prima o poi dovevamo nominarlo), e di altri grandi campioni arrivati dopo di lui, abbiamo archivi sterminati, di Pelé si fa fatica a trovare materiale, a tal punto che per riprodurre quello che viene definito il suo gol più bello – segnato nel 1959 contro i brasiliani del Club Atletico Juventus – si è fatto ricorso ai suoi racconti e alla computer grafica. Una serie di pallonetti che ricorda, moltiplicata e gonfiata a dismisura, la rete segnata nella finale del 1958 dalla Svezia, ma – a essere sinceri – anche le dimensioni di certi pesci che nessuno ha visto raccontati da certi pescatori. Un’azione che sembra uscita da una Playstation più che da un pesante campo di calcio degli anni Cinquanta.

L’origine di tutto

Nei giorni del Mondiale in Qatar, con Pelé dato in condizioni disperate, su Twitter, il podcaster Niccolò Scarpelli ha pubblicato un video di un paio di minuti corredato da una didascalia che sembra un’altra esagerazione e invece non poteva essere più vera: "Sono ossessionato da questo video di Pelé che anticipa ogni singolo gesto tecnico del mondo". Chi ha la voglia e la pazienza di guardarlo resterà altrettanto ossessionato.

Vedi Cruyff che negli anni Settanta sbilancia gli avversari con la finta a rientrare che era il suo marchio di fabbrica,e subito dopo vedi Pelé fare la stessa cosa, ma dieci anni prima; vedi i palleggi in serie tra gli avversari di Maradona negli anni Ottanta, già fatti; Zidane anni Novanta che scivola via, quasi pattinando, già fatto anche quello. C’è una rovesciata tropicale ed estatica che fa sembrare quella di Cristiano Ronaldo in Juventus-Real Madrid una replica allestita da robot meccanizzati, ci sono pallonetti in corsa, dribbling ubriacanti con i due piedi e pure una punizione all’incrocio dei pali calciata con il sinistro, il suo piede debole, se così si può dire. Nel video passano in rassegna tutti i fenomeni degli ultimi decenni e le loro giocate: Iniesta, Ronaldo il Fenomeno, Messi, Romario, Ronaldinho: tutto già inventato, già visto da chi ha visto Pelé, con un pallone che a volte sembra un macigno, con scarpe che sembrano mattoni e campi buoni per un contadino. Il Big Bang era lui, poi magari - dopo - si è visto anche di meglio, ma si parte da lì, da O Rei, non c’è niente da fare.

Tant’è, i suoi quattro gol più famosi che possiamo vedere ancora oggi sono tre, perché uno è pura finzione. Anzi due, perché uno se lo ricordano tutti come un gol, ma non lo è. Ora ci arriviamo. Quello che conoscono tutti è la rovesciata nel film "Fuga per la vittoria", gli altri due sono quello contro la Svezia e il colpo di testa dell’1-0 nella finale di Messico ’70. Lui sale in cielo e sembra non tornare più giù, il difensore italiano Burgnich salta, ma in cielo non ci arriva e non ci resta. Finirà 4-1 per il Brasile e Pelé si prenderà la terza coppa.


Il gol di testa nella finale contro l’Italia di Messico ’70 (Keystone)

Il non-gol più bello di sempre

Da rivedere, di quel Mondiale, ci sarebbe anche la miracolosa respinta del portiere inglese Gordon Banks, votata come "parata del secolo": chi tirò in porta? Pelé, ovviamente, che – ingombrante come nessuno – entra anche nei record degli altri. Ma c’è una giocata che perfino O Rei, nella sua ossessione per i gol, avrebbe dovuto rivedersi ogni tanto per ricordarsi che la grandezza - sua e di chiunque altro - non si misura sempre e solo in reti segnate, record e obiettivi raggiunti. Si tratta della finta con cui si libera, senza nemmeno toccare la palla, del portiere dell’Uruguay Mazurkiewicz durante la semifinale di Messico ’70. Lanciato in profondità, corre verso il pallone, ma non lo tocca: lo lascia scorrere. Mazurkiewicz, come davanti al trucco di un mago che fa sparire una carta, resta stupefatto e impotente. Pelé lo aggira, va a riprendersi la palla che passeggia da sola e calcia a botta sicura. Non se lo ricorda quasi nessuno e non lo diresti mai, ma il pallone va fuori.

Quel gesto tecnico incompiuto è il motivo per cui il calcio resta in piedi nonostante tutto, una magia senza trucco che riesce nell’impresa di bastare a se stessa perfino negandosi, vale a dire in un’azione che non sfocia dove dovrebbe, e cioè in gol.

Non sappiamo davvero se Pelé sia stato il più grande di tutti i tempi, e nemmeno importa, è come dire se è meglio un’alba, un tramonto, un sole allo zenit o una nevicata, abbracciare o essere abbracciati da un amico, un fratello, un padre, un amore appena arrivato o uno che è lì da sempre e per sempre: tutto serve a tutto, una bellezza non deve per forza oscurarne altre. Quel che sappiamo è che anche lui poteva sbagliare, e nel modo più spettacolare, nella cosa che gli riusciva meglio. Così sappiamo che è concesso sbagliare anche a noi. Ecco, se possibile, con la stessa grazia.


La sua maglia numero 10 (Keystone)

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