laR+ La ricorrenza

Un Campari con Bakunin e Czaykowski

Nel Gp brianzolo di 90 anni fa, quando sensibilità e sicurezza erano diverse da quelle odierne, perdevano la vita tre piloti fra i più celebri dell’epoca

In sintesi:
  • Una sensibilità assai diversa da quella odierna ha permesso agli organizzatori del Gp di Monza del 1933 di portare a termine la gara malgrado la morte sul tracciato di ben tre piloti
  • Nelle biografie di Czaykowski, Campari e Borzacchini - le vittime - ci sono aneddoti assai curiosi
9 settembre 2023
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Il circuito automobilistico di Monza – benché inaugurato un mese prima della Marcia su Roma (1922) – era presto divenuto vanto e fiore all’occhiello del regime fascista, che su quello straordinario tracciato cominciò a promuovere attivamente l’organizzazione di prestigiose gare internazionali.

Una pista del genere, opera di notevole fattura, consentiva infatti a Mussolini e ai gerarchi di mettere in vetrina il genio italico che stava dietro la realizzazione di manufatti ingegneristici così azzardati e di fenomenali marchi automobilistici che necessitavano di sbocchi commerciali sui mercati mondiali.

Nel 1933, l’anno di cui ci occupiamo in questa pagina, si trattava soprattutto di Maserati e Alfa Romeo, che in fatto di vettura da corsa detenevano un po’ il monopolio, insidiate soltanto da un paio di altre case, come la francese Bugatti o la statunitense Duesenberg.

Il leggendario Enzo Ferrari, per fare un esempio, in quei primi anni Trenta ai piloti della sua scuderia, non a caso, metteva a disposizione proprio monoposto Alfa e Duesenberg, e doveva ancora passare parecchio tempo prima che il Drake modenese potesse finalmente costruirsi da solo i propri bolidi (il marchio del Cavallino nacque infatti soltanto dopo la Seconda guerra mondiale, nel 1947).

Fatte queste premesse, susciterà dunque un po’ meno stupore sapere che al via del Gp brianzolo del 10 settembre di novant’anni fa – passato poi alla storia come la Giornata nera di Monza – su 20 vetture, addirittura 11 fossero Alfa Romeo, 4 portassero il marchio Bugatti, 2 uscissero dalle officine Maserati e le altre 3 fossero Mb, Duesenberg e Pbm.

La fatale perdita d’olio

A conferire a quella gara i crismi dell’evento funesto – vi morirono infatti in corsa tre dei più celebri e forti piloti dell’epoca – fu un guasto occorso alla Duesenberg di Trossi (Scuderia Ferrari), che durante la prima batteria grippò rovesciando in pista oltre venti chili d’olio all’entrata della curva sud, che aveva ben 21 gradi di inclinazione e si affrontava a 180 km/h, che a quei tempi era come la velocità della luce.

Il francese Moll, che lo seguiva, a causa della scia di lubrificante si girò tre volte su sé stesso, ma miracolosamente non si fece nulla. Morirà comunque l’anno seguente su un altro circuito italiano.

Prima delle seconda batteria si provvide, con ramazze e sabbia, a scopar via un po’ dell’olio traditore, ma evidentemente fu più che altro pro forma. E infatti, affrontando la curva in questione per la prima volta, col piede premuto sul gas quanto possibile, Borzacchini su Maserati e Campari su Alfa Romeo sbandarono, vennero a contatto e partirono per la tangente.

Campari si ribaltò un’infinità di volte, e morì sul colpo schiacciato dalla sua macchina, mentre Borzacchini, sbalzato dall’abitacolo, si spiaccicò contro un albero del Parco Reale: spirerà un’ora più tardi nel nosocomio monzese, con la colonna vertebrale sbriciolata, il torace appiattito e innumerevoli emorragie interne.

Parola d’ordine: continuare a correre

Fossimo stati nel 2000, il Gp sarebbe stato immediatamente interrotto e annullato, ma visto che il terzo millennio – con le sue mutate sensibilità – era ancora lontano come fosse un pianeta non ancora classificato, si procedette a spargere altra sabbia e a schierare in griglia le vetture della terza batteria, che furono soltanto cinque su sette, perché qualche pilota, fatti due conti, preferì passare la mano. La chiazza d’olio, di nuovo asciugata per modo di dire, mise comunque fuori gara Ghersi, che se la cavò per fortuna solo con graffi e spavento.

Il terzo morto ci scappò nel corso della finale: si tratta del polacco Stanislas Czaykowski, che al quarto giro si era portato al comando ma che, a un certo punto, dopo l’ottavo passaggio, non figurava più fra i piloti che sfrecciavano davanti alle tribune sul rettilineo principale.

Pochi minuti dopo tutti capirono: dalla zona della curva sud – quella con l’olio assassino – si alzò sopra gli alberi una colonna di fumo nerissimo. La Bugatti del polacco, finita oltre il bordo esterno del tracciato, si deformò intrappolando il pilota, che non riuscì a liberarsi. Quasi subito prese fuoco e Czaykowski finì carbonizzato.

La gara, finalmente, venne interrotta, benché qualcuno non fosse troppo d’accordo, né fra i piloti né fra il pubblico pagante, non ancora sazio di sangue. La vittoria venne attribuita al francese Lehoux (Bugatti) che, pur essendo partito ultimo in griglia, al momento dell’interruzione (14° dei 22 giri previsti), si trovava ormai al comando.

Il pilota milionario

Il polacco Czaykowski, nato in Olanda e nessuna parentela con l’omonimo compositore russo, al momento della tragedia – a dispetto delle foto d’epoca che ce lo presentano come un pensionato – aveva appena compiuto 34 anni. Sangue nobile, militare di carriera, dopo la Grande Guerra – che aveva combattuto volontario a fianco dei francesi – usò un po’ dei milioni che gli uscivano da ogni orifizio per acquistare la bellezza di sette Bugatti: aveva deciso infatti di diventare pilota professionista, e quegli stupendi bolidi blu gli pareva che potessero costituire il corredo di base.

Oltre al grano, ad ogni modo, possedeva pure stoffa e coraggio, tanto da riuscire dopo pochi anni di attività a stabilire – al volante proprio di una T54 e sulla prima autostrada d’Europa, in Germania – il nuovo record di velocità (221,7 km/h), quello dell’ora, quello sul chilometro, quello sul miglio e quello sui 5 km.

El Negher

Alle nostre latitudini, però, erano – e sono tuttora – più conosciute le altre due vittime di quel tragico Gp di Monza di cui proprio domani cade il novantesimo anniversario. Il lodigiano Campari – nessun legame col più amato dei bitter – perì a 41 anni e di nome faceva Giuseppe, ma mai nessuno lo chiamò così, forse nemmeno sua madre. Per tutti infatti – per via della pigmentazione particolarmente scura del suo derma – fu sempre, semplicemente, El Negher, epiteto che al giorno d’oggi sarebbe reato anche soltanto immaginare.

Amico fraterno di Enzo Ferrari, stazza di Oliver Hardy e baffetti hitleriani, Campari veniva dalla gavetta: cominciò infatti come meccanico all’Alfa Romeo per poi divenire meccanico di bordo di celebri piloti in gare prestigiose come la Targa Florio.

Accortisi delle sue capacità, i dirigenti della casa fondata a Milano gli affidarono un volante, e lui cominciò a vincere ovunque, specie in Francia e in Italia: oltre a due titoli nazionali, fece sua la celeberrima Mille Miglia in ben due occasioni (’28 e ’29).

Forchetta pantagruelica, El Negher aveva una smisurata passione anche per la lirica, tanto da sposare una soprano e da cimentarsi lui stesso nel bel canto. Ed è curioso che ancora oggi il nome di Campari sia ricordato, oltre che in una scena del felliniano Amarcord riferita proprio al passaggio in città della Mille Miglia – anche in campo musicale: appare infatti, insieme a quello della terza vittima – Borzacchini – nel testo della celebre canzone che Lucio Dalla dedicò al mantovano Tazio Nuvolari, che dei due suoi sfortunati colleghi oltre che rivale fu sincero sodale.

Nome imbarazzante? E io me lo cambio

Infine di Borzacchini, umbro di Terni, diremo innanzitutto che di nome faceva Baconino, come volle battezzarlo suo padre nel 1898 in onore del famoso anarchico russo Michail Bakunin. Fece la guerra in fabbrica invece che in prima linea, essendo impiegato in una fabbrica di munizioni. Dovendo occuparsi di trasportare il prodotto finito al fronte, un collega gli insegnò a guidare, e fu così che scoprì la passione per i motori. Dopo aver fatto il tassista, corse le prime gare su vetture prese a prestito, e le vinse, così i suoi concittadini fecero colletta affinché potesse permettersi una monoposto tutta sua. E lui, quando divenne ricco, li ripagò con generosi interessi.

Stampa e regime, tuttavia, stentavano a incensarlo come avrebbe meritato: colpa di quel nome di battesimo così inviso al dogma fascista. E così nel 1930, approfittando della visita all’Autodromo di Monza del principe Umberto di Savoia e della consorte Maria José – che condusse in pista su un’Alfa 6C 1750 per farle provare l’ebbrezza della velocità – Borzacchini annunciò pubblicamente che sui propri documenti avrebbe già il giorno seguente sostituito l’imbarazzante Baconino proprio con Mario Umberto, in omaggio alla giovane coppia.

Pure lui vincitore della Mille Miglia, corse per l’Alfa Romeo fino alla vigilia di quel tragico Gp brianzolo del 1933, quando per la prima (e ultima) volta aveva poggiato le terga sul sedile di una Maserati.

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