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La sicurezza ancora latitante sulle due ruote

A dieci anni dalla morte di Simoncelli a Sepang sono tanti i passi avanti per prevenire gli incidenti, ma di cose da fare ne restano parecchie

In ricordo di ‘Sic’ (Keystone)

A dieci anni dalla morte di Simoncelli a Sepang sono tanti i passi avanti per prevenire gli incidenti, ma di cose da fare ne restano parecchie

Dieci anni senza il Sic. Il 23 ottobre 2011, sul circuito di Sepang, in Malesia, perdeva la vita Marco Simoncelli (24 anni), investito da Colin Edwards e Valentino Rossi subito dopo una caduta. Una morte, quella del giovane pilota romagnolo, campione del mondo nella 250 cc nel 2008, che aveva destato forte commozione nell’ambiente motociclistico, come in quello sportivo più in generale. Da quel tragico giorno, molto è stato fatto per cercare di rendere più sicuro uno sport che sicuro al 100% non potrà mai esserlo. La Formula 1, in questo senso, ha compiuto passi da gigante, ma dalla sua ha la presenza di una scocca diventata negli anni praticamente indistruttibile e dunque garanzia di sicurezza per i piloti. Chi sta in sella a una moto, invece, lo fa aggrappandosi a una struttura che nelle MotoGp arriva a un peso minimo di 157 km e che il più delle volte è lanciata a oltre 200 km/h. È vero, rispetto a quando nel 1973 a Monza persero la vita Jarno Saarinen e Renzo Pasolini, di progressi ne sono stati compiuti molti, primo fra tutti l’eliminazione dei guard-rail a favore di ampi spazi di fuga. Paradossalmente, però, nelle gare di moto il pericolo maggiore è diventata la moto stessa. Perché se si finisce a terra non per una scivolata, ma per un incidente che ti lascia in mezzo alla pista, uscire indenni dal possibile (probabile) contatto con gli avversari alle spalle, rappresenta un vero miracolo. Miracolato era stato Franco Uncini, nel 1983 ad Assen, quando, sbalzato dalla sua Suzuki, mentre stava cercando di mettersi in salvo fuori dalla pista era stato centrato in pieno da Wayne Gardner. Era finito in coma, ma alla fine si era salvato.

Lo stesso miracolo non si è ripetuto per Marco Simoncelli, ma nemmeno, in un 2021 tragico, per lo svizzero Jason Dupasquier (30 maggio) e per gli spagnoli Hugo Millan (27 luglio) e Dean Berta Viñales (25 settembre). Tre giovanissimi (19 anni Dupasquier, 15 anni entrambi gli iberici), deceduti rispettivamente in Moto3, Supersport 300 ed European Talent Cup, colpiti da una motocicletta (nel caso di Millan, la sua). Sotto accusa non vi è il motociclismo in quanto disciplina sportiva, ma alcune sue derive che ne hanno aumentato la pericolosità. Su tutte, l’età sempre più giovane dei piloti e l’omologazione tecnica delle moto a beneficio dello spettacolo (ma non della sicurezza). Paradossalmente, gli incidenti più gravi avvengono in particolare nelle categorie minori, dalla Moto3 in giù. E questo, per due motivi: la scarsa esperienza dei piloti (unita a una dose d’incoscienza insita nei giovani) e il grande numero di centauri al via (30 in Moto3, addirittura 42 nella Supersport 3000). Questo secondo aspetto, legato alla presenza di moto dalle prestazioni sempre più simili le une alle altre, è alla base della formazione di quei trenini che tanto spettacolo televisivo creano, ma che nel contempo accentuano il rischio per i piloti: la distanza che separa gli uni dagli altri è talmente ridotta che chi segue non ha praticamente alcuna possibilità di evitare l’impatto con un pilota cadutogli proprio davanti. E, come ricordava Valentino Rossi dopo l’incidente di Berta, «quando cadi, più moto ci sono in pista, più pericoloso diventa». Parole il cui concetto è stato rafforzato dal dottor Claudio Costa, l’inventore della Clinica Mobile: «Quando ti colpisce una moto, pure a bassa velocità, l’effetto sul corpo umano è devastante: ogni tipo di protezione diventa inutile».

Servirebbe a qualcosa innalzare l’età minima per salire in sella a una moto? Secondo Valentino Rossi, bisognerebbe innanzitutto «imporre maggiore severità nel rispetto delle regole e appioppare sanzioni più pesanti a chi sgarra. Posticipare di un anno o due l’entrata dei ragazzi servirebbe a poco. Il nostro sport è meraviglioso, ma pericoloso: vanno insegnati il rispetto delle regole e degli avversari».

Il ricordo

‘Un concatenarsi di eventi sfortunati’

Se la ricorda bene la pista di Sepang, quella fatale a Marco Simoncelli, Roby Rolfo. Perché su quello stesso circuito, un anno prima, il luganese aveva centrato il successo nella Moto2. «Alla fine di quella stagione mi ero già fatto i miei programmi per quella seguente, ovviamente con l’ambizione di ben figurare in Malesia – racconta il pilota luganese –. Poi però le cose non andarono così: non avendo trovato un contratto interessante, avevo optato per le Superbike. Ma sempre con un occhio puntato su quanto avveniva nel Motomondiale. Non conoscevo Marco così bene, perché le nostre carriere avevano per gran parte seguito strade parallele, ma ciò che successe quel tragico 23 ottobre me lo ricordo bene. È stata una fatalità, un concatenarsi di eventi sfortunati. Un po’ come Marquez, pure ‘Sic’ era un pilota pronto a cercare di correggere la traiettoria della moto anche nelle situazioni più disperate. Quella volta però non ci è riuscito, scivolando. L’aderenza delle gomme ha poi fatto il resto, mantenendolo in pista, dove è stato investito da chi lo seguiva. Ironia della sorte, a travolgerlo erano stati Edwards e quel Rossi del quale in molti vedevano in lui parecchie similitudini. Chissà, forse col senno di poi, se non avesse cercato di salvare la caduta, se la sarebbe cavata con una semplice scivolata fuori pista…».

Circuiti più sicuri, ma non per forza gare più sicure

Ma come è cambiata la sicurezza per i piloti in questi anni? «Sono stati fatti parecchi passi avanti. Soprattutto a livello di strutture e piste, si è sempre andati nella direzione giusta, cercando di rendere il più sicuri possibile i circuiti. A cominciare dagli spazi di fuga, che sono determinanti perché in caso di uscita di strada permettono di non colpire ostacoli potenzialmente pericolosissimi: ovviamente la moto non offre tutta quella protezione che invece si ha con una macchina, per cui se si urta un ostacolo, è giocoforza il pilota a risentirne in prima persona. Da quando ho messo piede io nel Motomondiale, nel 1998, a oggi, anche nell’Endurance, dove corro tutt’oggi, i passi più importanti sono appunto stati fatti in questo campo, con l’intento anche di rallentare il pilota durante la caduta. In particolare con una via di fuga in asfalto prima di arrivare all’eventuale ghiaia, cercando di evitare nel limite del possibile l’erba nel primo tratto, perché spesso è quella a causare incidenti. Tanto è stato fatto anche per quel che concerne le problematiche inerenti l’aspetto meccanico della moto, con un occhio di riguardo a eventuali perdite di olio o acqua, che potenzialmente possono rivelarsi assai pericolose». Un ruolo importante, in caso di incidenti, lo hanno anche i commissari di gara, occhi vigili sempre puntati su quanto avviene in pista e pronti a richiamare l’attenzione dei piloti con le varie bandiere in caso di bisogno. «Anche in questo caso sono state adottate tutta una serie di migliorie, passando dall’aumento del numero di commissari distribuiti lungo il tracciato alla loro maggiore celerità – nel limite del possibile – nell’esporre le varie bandiere, come quella rossa, che sospende la corsa». Il ‘rischio zero’, però, ovviamente non esiste… «Purtroppo no: gli investimenti, che sono la principale causa di tragici incidenti, non si è ancora riusciti a evitarli. Anzi, dal mio punto di vista, questa problematica si è anche accentuata. Se tanto bene si è fatto per gli aspetti poc’anzi elencati, altrettanto non si può dire per quelli legati allo svolgimento pratico della gara. L’apertura alle moto a quattro tempi, mezzi sempre più simili per prestazioni gli uni agli altri, e ciò vale per MotoGp, Moto2 e Moto3, non fa che accentuare il rischio che si vengano a creare bagarre in pista. I cosiddetti trenini. Fenomeni, questi, che sono ancora più marcati nelle categorie ‘minori’, come possono esserlo Moto3 e Supersport 600. Spesso ci si ritrova così vicini gli uni agli altri che basta la scivolata di un pilota che precede per creare il disastro: o centri la moto o centri il pilota… A ben guardare, secondo me sotto questo aspetto le gare con moto a due tempi, forse meno spettacolari, offrivano una maggiore sicurezza, perché permettevano una maggiore selezione. Purtroppo questo è il brutto rovescio della medaglia della continua ricerca della spettacolarizzazione».

Mugello, 30 maggio 2021: Dupasquier, giovane promessa elvetica, perde la vita nella qualifica della Moto3, investito da un altro pilota. E il 19enne friborghese non è purtroppo l’ultimo a pagare con la vita un incidente di gara. La stessa tragica sorte tocca a nella Supersport 300 a Dean Berta Viñales a fine settembre. «Nelle categorie meno veloci, purtroppo, in caso di caduta le probabilità di restare in pista, esponendosi così al rischio di essere investiti, è ancora maggiore».

Sul circuito

I giovani e una pressione in costante crescita

C’è anche forse una ricerca più ostentata del risultato da parte di piloti o manager rispetto a una decina d’anni fa? «Beh, a mio modo di vedere nel Motomondiale c’è sicuramente un ambiente meno rilassato rispetto a quando correvo io. Non vuol dire che prima non ci fosse l’ambizione, anzi, ma forse oggi, specie con l’arrivo nel Motomondiale di parecchi giovani, c’è più competizione. Molti, poi, tendono a emulare le gesta dei loro idoli, come può esserlo il Marquez di turno, col rischio però di spingersi oltre le loro capacità. La tempra di un pilota la si deve costruire su sé stessi, prima che cercando di ripetere quanto fatto da altri. In questo senso attorno al Motomondiale negli ultimi anni si sono aggiunte un sacco di persone che prima non c’erano, come lo psicologo dello sport, il preparatore atletico e via discorrendo. Per certi versi si è cercato di emulare l’ambiente della Formula 1, scordando forse un po’ che la moto non è così: le rivalità che ci possono magari stare quando si guida un’auto, in sella a una moto possono essere anche assai pericolose». Diciannove anni Dupasquier, addirittura quindici lo spagnolo: due vite stroncate da un fatale incidente. Troppo giovani, eppure… «Purtroppo è appunto tra i giovani che la pressione è maggiore. Spesso vengono spinti a fare il grande salto sempre prima. Addirittura già a dodici anni in Spagna, con le prime moto, per poi bruciare le tappe. Ai miei tempi, fino a sedici anni potevi partecipare unicamente al Campionato europeo, mentre il Mondiale dai diciotto. Oggi, invece, in Spagna puoi trovare dodicenni e anche undicenni che girano in pista con telai potenzialmente da Moto3».

Il dramma vissuto in presa diretta

Un altro aspetto delicato è poi quello relativo al numero di partecipanti alle gare: «Quando è stata lanciata la Moto2, nel 2010, eravamo qualcosa come 44 concorrenti. Un’enormità, se si pensa che ci sono piste che sono omologate unicamente per 36 piloti. Gareggiare in così tanti su circuiti corti come all’Estoril non è certo evidente, eppure quell’anno l’avevamo fatto. E purtroppo quell’anno a Misano ci fu anche il tragico incidente occorso a Tomizawa, investito da De Angelis e Redding. A grandi linee la medesima dinamica che l’anno dopo si è portata via Simoncelli». E non è l’unica volta che Rolfo è stato confrontato direttamente con la morte di un compagno di corse: «Purtroppo no. Ero a Suzuka, e avevo da poco concluso la gara della Moto2 quando si verificò l’incidente fatale a Kato nella MotoGp. Nella stessa categoria in cui correvo io è successo a Craig Jones, nella Superbike a Brands Hatch, poi ad Andrea Antonelli a Mosca, nella Supersport 600, in una gara che non si sarebbe nemmeno dovuta disputare viste le pessime condizioni meteo. Malgrado le nostre perplessità, espresse ancora dopo il giro di ricognizione, gli organizzatori avevano deciso di dare il via alla gara. Ricordo che alla partenza sono rimasto molto cauto, perché la visibilità era assai ridotta. Purtroppo Andrea nella concitazione è caduto, ma chi lo seguiva non se n’è avveduto prima che capitasse il dramma».

Il commiato

L’ultima recita in Italia del Dottore

Sarà un weekend emozionante per molti al Gp dell’Emilia-Romagna. Domenica vedrà Valentino Rossi prendere parte alla sua ultima gara da pilota MotoGp sul suolo di casa, nel suo amato Misano World Circuit Marco Simoncelli. Il nove volte campione del mondo ha annunciato il ritiro dopo la pausa estiva, al Gp della Stiria in agosto. Col secondo evento a Misano, una pista dove è cresciuto, Rossi saluta la pista romagnola davanti ai suoi fan. Tre volte vincitore a Misano, il Dottore si aspetta un fine settimana più duro di quello che i piloti hanno affrontato un mese fa sulla stessa pista, visto che le condizioni meteo saranno più avverse. L’obiettivo per lui è quello di essere più competitivo che mai per salutare con un risultato eccellente i suoi tifosi. «È stato bello avere queste due settimane senza gare, perché abbiamo avuto dei momenti impegnativi, compreso il viaggio negli Stati Uniti, che è stata una gara davvero impegnativa – commenta Rossi –. Durante questo periodo mi sono allenato duramente a casa per essere sicuro di poter affrontare le ultime tre gare della stagione nella migliore condizione fisica. Questa seconda gara a Misano sarà più dura della prima perché probabilmente sarà più freddo rispetto a un mese fa. La gara precedente a Misano è stata già un momento davvero emozionante per me e, naturalmente, questa sarà una gara speciale a casa. Spero davvero che i tifosi possano godersela». Dopo 25 anni di gare, quella di domenica sarà la 430esima.