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Fratello investimento, sorella spesa: chi paga sceglie la musica

È normale che certi studi fatti su misura continuino a ripetere il ritornello che alcuni non vogliono smettere di sentire. Ma i conti non quadrano

In sintesi:
  • Gehri aveva ragione quando diceva che ‘spesa e investimento non sono la stessa cosa’
  • Due giorni fa però è incorso in una grandissima fallacia
  • Lo dimostrano trent'anni di politiche masoniane 
Regia di Andrea Gehri
(Wikipedia)
11 ottobre 2023
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La contabilità in partita doppia è un metodo di scrittura contabile, obbligatorio per enti pubblici e aziende di certe dimensioni, che prevede per ogni movimento una duplice registrazione sui conti dare/avere. Ciò permette di rilevare simultaneamente quel che succede con ogni transazione, sia dal punto di vista finanziario sia da quello economico. In un esempio volutamente semplice, questo significa che gli acquisti del materiale di cancelleria per gli uffici dell’Amministrazione cantonale verranno registrati in quanto uscita sul conto attivo ‘cassa’ a bilancio, mentre saranno un costo del conto economico alla voce ‘materiale di cancelleria’. C’è però una circostanza particolare in cui determinate uscite non vengono contabilizzate in quanto costo. Si tratta degli investimenti: quando il Cantone decide di rifare una rotonda, potenziare la rete di fibra ottica oppure costruire una nuova sede di scuola media – appaltando quindi tutta una serie di lavori e generando un importante indotto economico –, le somme di denaro destinate a tali opere (poco importa se saranno fondi propri o dei crediti bancari) non costituiranno, a livello contabile, una spesa. Tali investimenti verranno attivati a bilancio in quanto patrimonio dell’ente pubblico (che andrà ammortizzato negli anni), senza però incidere sul conto economico – ergo, sul risultato – dell’esercizio in corso.

Dal punto di vista strettamente tecnico aveva quindi ragione Andrea Gehri, presidente della Camera di commercio ticinese, quando ad aprile di quest’anno diceva che “spesa e investimenti non sono la stessa cosa”. Il timore espresso dal mondo economico la scorsa primavera riguardava la constatazione che l’ente pubblico e il parastatale stessero frenando “pericolosamente gli investimenti”; effetto indesiderato per gli imprenditori ticinesi del Decreto Morisoli che avevano sostenuto a spada tratta, decreto che la politica avrebbe invece dovuto sapere “interpretare nel suo vero significato” e cioè: i tagli vanno fatti, ma soltanto sulla spesa.

Sempre Gehri, due giorni fa, durante la presentazione dello studio ‘Finanza pubblica e fiscalità 2023’, studio svolto dal Centro di competenze tributarie della Supsi su incarico della Camera di commercio, è incorso in una grandissima fallacia metodologica (e non solo) quando ha affermato che la proposta del Consiglio di Stato di ridurre l’aliquota massima dell’imposta sul reddito – nell’ambito della prospettata riforma fiscale – “non sarebbe un regalo ai più ricchi ma un investimento sull’attrattività” del Ticino. Uno sgravio che verrebbe tra l’altro finanziato dall’aumento del moltiplicatore d’imposta per tutti gli altri contribuenti.

“Chi paga sceglie la musica”, soleva dire il collega Erminio Ferrari. Risulta quindi normale che certi studi (e certi editoriali) fatti su misura continuino a ripetere il ritornello che alcuni non vogliono smettere di sentire: “Solo una fiscalità attrattiva incoraggia lo sviluppo economico”.

I conti però non quadrano. Santificare ‘fratello’ investimento e condannare ‘sorella’ spesa, mentre si invoca il rigore finanziario del Cantone e si spinge per nuovi alleggerimenti fiscali a favore dei più benestanti, equivale a dire che bisogna tagliare da un lato per poter sgravare dall’altro. Trent’anni di politiche masoniane dimostrano che una ridistribuzione regressiva della ricchezza di questo tipo non va a beneficio del tessuto socioeconomico ticinese, ma soltanto dei (pochi) diretti interessati.

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