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Ecco perché la morte non può mai avere l'ultima parola

La commemorazione dei defunti e la pandemia ci impongono una riflessione sul distacco terreno e la ricerca di speranza

La morte (Ti-Press)
3 novembre 2020
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Sono questi i giorni in cui il ricordo di un parente, di un amico, di un collega si fa più acuto e doloroso. Non conta il momento del loro addio, fosse anche un quarto di secolo fa o lo spazio di solo due settimane. Come non c’è causa che possa lenire la ferita del distacco terreno: neppure quei “aveva una certa età”, “ha vissuto la sua vita”, “quel male non perdona” ci aiutano a soffrire di meno, a non desiderare di ritrovarceli, ancora una volta, insieme a pranzo oppure accanto alla nostra scrivania. Una quotidianità che va avanti dovendo comunque fare i conti con questo continuo vuoto e con il tempo che difficilmente, e forse solo marginalmente, riuscirà a riportare una nuova e piena serenità.

Nella settimana che ci impone nel calendario la commemorazione dei defunti, ci rendiamo così conto che mai come in questo 2 novembre “intra peritura vivimus”, ovvero – come insegnava il filosofo romano Seneca – viviamo tra cose destinate a morire. Dalla foglia ingiallita che cade dall’albero al giovane perito tragicamente in un incidente, dall’insetto che ha segnato la sua fine su una ragnatela al conoscente che ritroviamo, con sbigottimento, una mattina, durante colazione, nelle ultime pagine del giornale. Quel senso di morte che avvertiamo nei telegiornali, alla radio, sul web, fra notizie di guerre, tragedie familiari, attentati terroristici e gesti violenti e sconsiderati di singoli.

E lo è soprattutto in questo periodo che, ormai da diversi mesi, ci tiene stretti nella sua morsa fatta di paure, preoccupazioni e precarietà. La pandemia, infatti, non solo ci ha messo di fronte a una malattia tanto sconosciuta quanto temibile, ma ci ha costretti a fare i conti giorno dopo giorno con la morte stessa. O meglio, le morti, nello schizofrenico computo di curve e dati che ci viene sfacciatamente presentato ogni ventiquattro ore. Un morto, due morti, tre morti, e così via… quasi fosse una filastrocca per bambini… Eppure dietro a quei numeri ci sono volti, ricordi, affetti, per alcuni dei quali non c’è stata neppure la possibilità (o il diritto) di un ultimo saluto.

Se in queste ore possiamo (ancora) entrare in un cimitero, fermarci a pregare su una tomba, posare un fiore in un vaso di una lapide, le nostre azioni risultano però condizionate dalla necessità di distanziamento sociale, dalla mancanza di contatto con chi, accanto a noi, piange una mamma, un nonno o un vicino di casa. E quell’addio che non siamo riusciti a dare in piena emergenza da coronavirus, quella stretta di mano mancata al capezzale di un morente, oggi li ritroviamo nell’impossibilità di scambiarci sentimenti di consolazione, di vicinanza, di compassione con quanti hanno vissuto lo stesso dramma, lo stesso lacerante dolore. Il Covid-19, nel frattempo, ci continua a parlare di morte, come è stato la scorsa primavera. Quella ‘morte’ che può essere accolta però solo quando è premonitrice di speranza: la Passione e la Resurrezione, il crollo e la rinascita, la fine e l’inizio, la porta che si chiude e la finestra che si apre, a dipendenza del contesto (religioso, laico, economico, sociale) in cui la si legge e dal contenuto che le si vuole dare. Ecco perché, anche in piena pandemia, la morte non può mai avere l’ultima parola.

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