Commento

Coronavirus, c’è poco da applaudire

Nella settimana dei talk show senza pubblico, se è vero che l’ironia è un farmaco, scriviamo per esorcizzare. O forse per non pensare.

'Su le mani!'
27 febbraio 2020
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Lunedì scorso c’erano venticinque gradi. Da noi è già ‘La dolce vita’, come la chiamano (chiamavano?) su in Zucchinia, dove sono (erano?) già con le valigie pronte per calare a Tenero a occupare i camping. Ogni concetto, ogni parola, ogni tempo verbale scritto in queste ore è suscettibile di un punto di domanda, di una revisione, se non di un opposto, in questo divenire di cifre che chiamano la psicosi e dichiarazioni che invitano al buonsenso. E il buonsenso che invita a ragionare. Come si dice col primo sole, “È già primavera”, o se si preferisce “Non ci sono più le mezze stagioni” e altri luoghi comuni. Comuni come “Napoletani coronavirus”, cantato negli stadi dell’Italia del Nord, perché tanto per qualcuno è sempre colpa dei napoletani (c’è un detto giù in Terronia: “Non sputare in cielo che poi in faccia ti cade”). Comuni come “È solo una manovra contro l’economia cinese!”, “È solo un’influenza!”, “Chiudiamo le frontiere!”, “È colpa dell’Isis!”, “È l’Apocalisse!”.

Il virus influenzale sa di nebbie, di maltempo, d’inverno siberiano. Di grigiume. Col sole, la sensazione d’isolamento è ancor più un opposto. Non sono giorni per gli ipocondriaci, che al fast food digitano il touch screen con le nocche invece che coi polpastrelli, chiedendosi “Mangio dentro? Mangio fuori? Meglio fuori. Ma fuori fumano e il fumo fa male. Allora meglio dentro. Ma dentro respirano e il respiro fa male. Meglio fuori. Forse”. Non è tempo per le agenzie stampa italiane, un susseguirsi di teatri chiusi, di concerti rinviati e firmacopie saltati. Il firmacopie, l’incontro coi fan nei centri commerciali, l’autografo (per gli over 40), il selfie o il bacio grazie ai quali ancora si vende musica in nome del cantante che è (era?) finalmente sceso dal piedistallo.

Dobbiamo spaventarci? Non dobbiamo spaventarci? Che ne sarà della musica? Che ne sarà dei teatri, dei circoli letterari, dei tavoli della briscola, degli autoscontri e delle piste di biglie? Che fine faranno gli eventi di piazza, i bagni di folla, i “Su le mani!”, i “Fatevi un bell’applauso!”? YouTube ci insegna che si può fare spettacolo senza muoversi da casa. Se sei il pubblico, meglio: lo spettacolo è gratis, niente fila, niente ascelle pesanti, non ti requisiscono l’ombrello, non ti cantano nelle orecchie e una birra non costa 10 franchi. E se sei quello che canta, meglio ancora: non devi niente al manager e gli organizzatori non ti chiederanno mai “Sì, ma quanta gente porti?”. È facile. Ma che musica sarebbe?

C’è sempre la tv. Anche se da quella italiana è sparito il pubblico. Nella tv del dolore, dove si applaude a comando, non se ne sente la mancanza. La tv del buonsenso tiene botta, se non che pare un programma per sordi. Sordi che invece fanno un baccano d’inferno quando ruotano i polsi coi palmi della mani aperti, che nella lingua dei segni significa ‘ovazione’. C’è in rete una ragazza sorda che chiede a nome di tutti i sordi che la tv trasmetta 24 ore su 24 nella lingua dei segni. Poi, giri su Barbara D’Urso e ti chiedi se ne valga davvero la pena (vale, eccome se vale. Basta solo cambiare canale).

Nell’incertezza di questo non sapere che sarà di noi, in questo “Starnutisco, governo ladro”, è un segno anche aprire un bonbon e trovarvi dentro Dostoevskij che dice “Ama la vita più della sua logica, solo allora ne capirai il senso”. E far fatica a capirlo. Con questo virus invernale che nell’estate alle porte pare un ossimoro, col suo nome sgradevole da paparazzo non meno virale, non meno virulento, in questi primi giorni di sole, scriviamo per sdrammatizzare. L’ironia, in mancanza di un vaccino, è un farmaco che fa più di un applauso. Perché è vero che il pubblico ha sempre ragione, ma l’importante è che ce l’abbia anche Dostoevskij.

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