Commento

Liliana Segre non ha paura

8 novembre 2019
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Liliana Segre, respinta tredicenne alla frontiera svizzera nel 1943, finì ad Auschwitz, dove le venne tatuato sul braccio il numero 75190. Sopravvisse.
Sopravviverà anche alle salve di insulti e minacce che le piovono addosso soprattutto da quando è stata nominata senatrice a vita, a causa delle quali le è stata assegnata una scorta.

È cambiato qualcosa, nel frattempo. I criminali che concepirono e condussero lo sterminio degli ebrei d’Europa, una volta sconfitti, pagarono per quello. Sarebbe bene precisare: “soltanto” una volta sconfitti. Viceversa, i disseminatori di parole e formule che si richiamano a quelle di allora sono solo all’inizio di un nuovo cammino. Ritrovano spazi, ascolto, potere. Non perché il loro discorso risulti più convincente che negli anni in cui furono varate le leggi razziali; piuttosto perché il cordone sanitario steso attorno si è ridotto fino a esaurirsi. Per parlare dell’Italia, ma senza ignorare che anche nella Cdu della cancelliera Angela Merkel l’ipotesi di associarsi ad Alternative für Deutschland non è più tabù.

Liliana Segre risiede nella città capoluogo della regione il cui presidente sollecita alla difesa della “razza bianca”; è cittadina di un Paese che ha avuto come ministro dell’Interno un sodale della destra più estrema e ha condiviso iniziative animate da notori neonazisti; siede in un Parlamento dove una destra sedicente moderata, in concorso con quella fascista, ha negato il proprio voto all’insediamento di una commissione “contro il razzismo”, imitata dal Consiglio regionale lombardo; e forse le tocca leggere quotidianamente titoli e articoli fiancheggiatori di quel discorso d’odio su giornali con pretese di rispettabilità, prima che sui “social”.

In quest’acqua nuota il discorso razzista, del quale l’antisemitismo è in Europa un conio originario. Concessione su concessione, minimizzazione su minimizzazione, falsificazione su falsificazione (l’equivalenza tra antisemitismo e critica delle politiche di Israele), gli spazi aperti ai disegnatori di svastiche o a chi evoca “i forni” si estendono. È poi facile additarli come menti disturbate, soggetti isolati, devianti, quando le loro azioni (non siamo ancora agli spari davanti alle sinagoghe, ma neppure ne siamo al sicuro) avvicinano troppo le responsabilità di chi, blandendoli o affiancandoli, incrementa i propri consensi elettorali.
Liliana Segre ha visto altro che questo, e dall’alto della sua statura morale non li teme. Una società che non vuole perdersi, invece, dovrebbe. E dovrebbe reagire di conseguenza.

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