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Nominare un nuovo popolo?

Quando le elezioni vanno male per la sinistra, vi sono al suo interno due simmetriche tendenze all’unilateralità

In sintesi:
  • Dopo una sconfitta, i progressisti oscillano sempre tra autocritica e risentimento verso l'elettorato
  • Domina il dibattito una paura dall'orizzonte sempre più basso
  • Va bene l'unità, ma serve un progetto
Virginio Pedroni
(Ti-Press)

Quando le elezioni vanno male per la sinistra, vi sono al suo interno due simmetriche tendenze all’unilateralità. L’una esprime una sorta di amor fati per cui quello che è accaduto è ritenuto inevitabile e persino giusto, una meritata punizione per gli errori commessi, la cecità strategica palesata, la colpevole distanza dai bisogni del popolo, in particolare dei più deboli. Oppure, all’opposto, si fa largo la convinzione che il popolo non capisca, segua le sirene della demagogia, sia disorientato e superficiale: insomma, un po’ “bestia”, per cui, come diceva Bertolt Brecht, il comitato centrale vorrebbe nominarne un nuovo. Magari i due atteggiamenti convivono: pubblicamente prevale il primo, nel segreto delle riunioni di partito il secondo. Cenere sul capo e risentimento nel cuore. E poi non possono mancare i soliti saccenti “compagni di strada”, che forse si chiamano così anche perché, incontrati per la via il giorno dopo le elezioni dal fedele e deluso militante, gli dicono: “Te l’avevo detto”.

Uno più uno non fa necessariamente due, in politica, anche per una lista unica rosso-verde che candida un eminente matematico. Se l’obiettivo minimo di una tale alleanza era certamente a portata di mano (riconfermare il seggio in governo), come si è poi visto, la trasformazione di questa unione in un propulsore di dinamica e creatività politica era tutt’altra questione. Elaborare una cultura politica rosso-verde, che definisca nuove connessioni fra questioni economiche, sociali e ambientali, è difficile; renderla capace di dettare l’agenda politica, togliendo l’iniziativa alla destra e portando un po’ di chiarezza in mezzo a tanta confusione, ancora di più. Un’aspirazione che si scontra con una realtà ostica.

Un orizzonte che si abbassa

Negli ultimi anni il clima politico è mutato. Rimane sotto il segno dominante della paura, ma si è abbassato il suo orizzonte: non è, in questo momento, la preoccupazione ambientale a premere (e questo nonostante la recente pandemia), ma quelle relative alla sicurezza economica e geopolitica (in cui si inserisce anche la questione migratoria). La crisi della globalizzazione neoliberista non determina assolutamente il riscatto dell’universalismo morale nei confronti di quello meramente mercantile, ma un ritorno dei confini, delle aree di influenza, della guerra (col conseguente riarmo e persino col ritorno in auge della minaccia nucleare). Frontiere a geometria variabile, certo: nazionali, per alcuni versi, ma anche sovranazionali, tra aree geopolitiche (Nato, Unione europea, e dall’altra parte Russia e Cina, con i loro satelliti); ma pur sempre frontiere. In Svizzera questo non può che rafforzare le tendenze isolazioniste, care all’Udc, ad esempio sul tema della neutralità; tendenze care anche alla Lega, in Ticino. Ma, finita una lunga stagione “gloriosa”, il movimento fondato da Bignasca e Maspoli sembra entrato in una fase discendente inarrestabile, tutta da analizzare.

Anche la sempre più acuta questione sociale non trova facilmente declinazioni progressiste. Alla ricchezza e profondità di analisi critiche del capitalismo neoliberista e delle sue devastazioni sociali, non corrisponde la capacità della sinistra di delineare un progetto e un blocco sociale in grado di prospettare un nuovo equilibrio complessivo per i nostri paesi, il che erode il suo consenso elettorale. Dalla fine del secolo scorso, le grandi forze socialiste, ricordava recentemente il politologo Marc Lazar, sono passate nel Nord Europa mediamente dal 35% al 22% dei consensi, e nel Sud Europa dal 40% al 23%. È caduto qualche giorno fa il governo socialista finlandese e potrebbe succedere altrettanto dopo le elezioni spagnole. Solo in Gran Bretagna il vento sembra diverso, ma quella è un’altra storia. L’insoddisfazione dovuta alle difficoltà dei partiti della sinistra storica non porta all’avanzata della sinistra più radicale e d’opposizione (lo abbiamo visto anche alle nostre elezioni cantonali). Si conferma il fatto che nelle nostre società sono le fasi economicamente espansive – quando il capitalismo, magari debitamente corretto, mostra il meglio di sé – che aprono anche nuove e più radicali aspettative di una migliore forma di vita. Sembra proprio che avesse ragione Adam Smith, quando scriveva nella ‘Ricchezza delle nazioni’ che “lo Stato stazionario è stupido, e quello di decadenza malinconico”. Una bella sfida, questa, nella impostazione della transizione ecologica. Comunque in Ticino la destra nel suo complesso non è avanzata, è la sinistra che è arretrata per conto suo, per mancanza di slancio e vittima anche della frammentazione partitica.

Democrazie senza democratici

Infine si conferma, qui come altrove, il calo della partecipazione elettorale, che ci porta al paradosso di democrazie senza democratici. Proprio nel momento in cui più acuto si fa il confronto con regimi statuali autoritari, e con vocazione totalitaria, lo spirito della democrazia, che non è compatibile con la chiusura degli individui nella propria singolarità, si infiacchisce. Passati dalla democrazia dei partiti (con la loro ricca cultura politica, ma anche le loro burocrazie e clientele) a quella del pubblico (che guarda in Tv i leader) e poi a quella della rete (con i suoi like e i suoi insulti), lo spazio pubblico tende a svuotarsi, l’idea che la propria vita possa essere migliorata anche grazie all’azione della politica si indebolisce. A subire le conseguenze di questo indebolimento non può che essere soprattutto la sinistra, che vive dell’idea che la libertà di ognuno non trovi solo il limite in quella dell’altro, ma anche la sua condizione di possibilità, in uno sforzo collettivo. Oltre all’astensionismo, al crescente successo della scheda senza intestazione, anche la frammentazione del voto e il subitaneo innamoramento per leader e partiti nuovi e improbabili sono un sintomo di generale e comprensibile disorientamento. E lo sono, in altre parti dell’Occidente, improvvise esplosioni di rivolta che denotano una diversa forma di estraneità dalla democrazia rappresentativa.

Sarebbe però sbagliato rifugiarsi, per spiegare il deludente risultato della sinistra rosso-verde, solo in fattori oggettivi, che si imporrebbero come un destino. In politica contano anche le decisioni degli attori e i loro eventuali errori.

Dall’unità alla progettualità

La bontà della scelta della lista unitaria è fuori discussione, in quanto figlia di una strategia in grado di indicare una prospettiva futura. Ben più problematica è stata la procedura per la sua composizione, che ha inserito forti elementi di rigidità nei criteri di selezione delle persone (due verdi e due socialisti, uno giovane e uno esperto per parte, il quinto super partes). Vi è stato poi l’arrocco chiesto a Marina Carobbio, che trovava una ragione nell’indiscusso valore della sua figura politica, ma che ha comunque creato un inghippo istituzionale di non scarso rilievo. Infine abbiamo avuto la vicenda della mancata candidatura di Amalia Mirante. Anche questa decisione poteva trovare una sua giustificazione nella relativa estraneità della possibile candidata rispetto alla linea del partito, estraneità confermata anche dalla successiva campagna elettorale alla testa di Avanti. Ma era difficile che non risultasse evidente la contraddizione fra questa valutazione e il fatto che la stessa persona fosse stata candidata per ben due volte in precedenza, con ottimi risultati. Che un intero congresso sia stato dedicato alla valutazione di una singola candidatura e in parte anche di una singola persona, non è stata certo una pagina gloriosa.

Poi per i socialisti e i verdi ticinesi si tratterà, soprattutto, di riflettere sugli eventuali nessi fra il cattivo risultato e le politiche seguite negli ultimi anni, nei territori, nei comuni, nel parlamento e nell’esecutivo. Sappiamo, ad esempio, quanto sia stato complesso e travagliato il confronto nel mondo della scuola su alcune iniziative di riforma intraprese dalla sinistra di governo. È opportuno che di tutto questo si discuta criticamente, ma sarebbe peccato se l’arretramento elettorale subito causasse un’interruzione del percorso che cerca di coniugare questione sociale e questione ambientale. Un compito ineludibile, anche se per nulla scontato: quello di presentare a una società liquida e a un elettorato volatile, posti spesso sull’orlo di una crisi di nervi (la pandemia, la guerra, la crisi delle banche, i premi di cassa malati, ma anche la crisi climatica ecc.) un progetto progressista realistico e coerente.

Questo contenuto è stato pubblicato grazie alla collaborazione con il blog naufraghi.ch

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