medio oriente

‘Via le truppe americane dall’Iraq, ci destabilizzano’

La richiesta dopo il raid Usa a Baghdad e le pressioni iraniane

Soldati americani in Iraq
(Keystone)
10 gennaio 2024
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In un chiaro segnale dell'allargamento a tutto il Medio Oriente del conflitto israelo-palestinese, il governo di Baghdad chiede a gran voce un "rapido e ordinato" ritiro delle forze militari statunitensi: questo pochi giorni dopo un raid aereo americano su Baghdad compiuto per uccidere un capo di una milizia filo-iraniana e a dieci anni di distanza dal ritorno delle truppe Usa in Iraq, ritiratesi nel 2011 dopo la prolungata occupazione militare cominciata più di 20 anni fa. Sostenuto sia dagli Stati Uniti che dal vicino Iran, il premier iracheno Muhammad Sudani oggi ha esplicitamente chiesto a Washington di avviare il ritiro dei suoi 2.500 tra militari e contractor dispiegati in alcune basi a nord e a ovest di Baghdad. "La loro presenza destabilizza il Paese", ha detto Sudani. Il premier, sotto pressione di Teheran, non ha però proposto un calendario per l'uscita dal Paese dei soldati americani.

Richiesta formale pronta

Nei giorni scorsi le autorità irachene avevano annunciato di voler inviare una formale richiesta a Washington per avviare il ritiro. Ma il Pentagono aveva smentito di aver ricevuto una simile comunicazione da Baghdad. "Rimaniamo concentrati sulla missione di sconfiggere l'Isis", aveva detto il generale americano Patrick Ryder. "Le forze Usa sono in Iraq su invito del governo iracheno", aveva aggiunto. I soldati Usa erano tornati in Iraq nel 2014, dopo un'assenza di soli tre anni seguita al ritiro deciso dall'allora presidente Barack Obama dopo l'invasione anglo-americana culminata nel 2003 con la deposizione del dittatore iracheno Saddam Hussein. Il ridispiegamento avvenuto dieci anni fa si era svolto nel quadro della Coalizione globale anti-Isis, guidata proprio dagli Stati Uniti. Tra l'autunno del 2013 e l'estate del 2014 lo ‘Stato islamico in Iraq e Siria’ aveva conquistato Mosul, la seconda città dell'Iraq nel nord del Paese, e Raqqa, un'altra città chiave del Medio Oriente, nella vicina Siria.


Keystone
Truppe americane durante un’esercitazione a Baghdad

Il nodo terrorismo

La guerra all'Isis in Iraq e Siria, formalmente conclusasi tra il 2017 e il 2019 con l'annuncio della "sconfitta militare dell'Isis", ha per anni visto gli Stati Uniti combattere sullo stesso fronte sia con le forze curde sia con i jihadisti sciiti filo-iraniani. Questi ultimi da metà ottobre prendono di mira le basi americane tra il Tigri e l'Eufrate. Anche oggi la Resistenza islamica in Iraq, una sigla che riunisce i gruppi armati iracheni sciiti sostenuti da Teheran e che hanno rappresentanti nelle istituzioni centrali irachene, hanno rivendicato l'attacco a una base militare Usa in Siria.

Da metà ottobre a oggi sono stati più di 100 gli attacchi alle basi Usa in Iraq e Siria rivendicati dalla Resistenza islamica in Iraq. Per questi gruppi la presenza militare americana nella regione è una "occupazione illegittima". Il governo di Baghdad, che è sostenuto da un maggioranza parlamentare costituita da partiti-armati filo-iraniani, fino alle ultime settimane aveva mantenuto un atteggiamento cauto nei confronti della presenza militare americana, mantenendo valido l'invito rivolto dieci anni fa dalle autorità irachene agli Stati Uniti perché questi intervenissero nel Paese. Poi, venerdì scorso, dopo il raid aereo Usa nel cuore di Baghdad e nel quale è stato ucciso un dirigente delle forze paramilitari filo-iraniane, il premier Sudani aveva rotto gli indugi: "La Coalizione (anti-Isis) ha terminato la sua esistenza", aveva annunciato, aprendo le porte alla richiesta pronunciata oggi.

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