La recensione

Virtù e virtuosismi di Miss Bartleby

Il racconto di Herman Melville, luci e ombre della (lunga) versione di Marco Maria Linzi, fra il teatro dell'assurdo e la riflessione umana. Visto al Lac

Nota di merito alle scenografie e ad attori e attrici
(Luigi Guaineri)
11 gennaio 2024
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Su ‘Bartleby lo scrivano’, racconto di Herman Melville pubblicato a metà Ottocento, si è scritto tantissimo: la storia di questo impiegato di uno studio legale che, con un cortese e immotivato “preferirei di no”, si rifiuta di compiere alcuni lavori e alla fine anche di vivere è stata interpretata in molti modi, dai legami con il trascendentalismo statunitense all’esistenzialismo.

A questo lungo elenco si è unito Marco Maria Linzi con il suo ‘Miss Bartleby. Non è tempo di essere’, in scena martedì e ieri al Lac che ha coprodotto lo spettacolo insieme a Teatro della Contraddizione e MTM Teatro. Linzi ha messo insieme il teatro dell’assurdo – del quale il racconto di Melville è considerato un precursore – e una riflessione sulla natura umana. Dove quel “messo insieme” significa che Linzi ha diviso il lungo spettacolo in due parti, separate da un intervallo, che sono parse due opere diverse (almeno agli spettatori che sono rimasti in sala fino alla fine, e alla rappresentazione di martedì non erano molti). Il primo atto, definito “dispositivo simbolico di apprendistato”, è una frenetica coreografia con miss Bartleby su un piedistallo al centro della scena e otto attori e attrici muoversi in una sequenza di quadri ipnotica e disorientante. Una voce fuori campo e alcune scritte proiettate su due tende leggere sono le uniche parole comprensibili, per il resto abbiamo un grammelot che in breve spinge il pubblico (o meglio “il comitato”, come viene definito dalla voce fuori campo) a rinunciare a capire e a lasciarsi trascinare dal ritmo e dal flusso di eventi, una volta superato il turbamento iniziale dovuto anche agli aspri suoni di scena.

Il secondo atto è invece recitato e segue abbastanza fedelmente gli eventi del racconto di Melville, con Miss Bartleby che con un “avrei preferenza di no” si ritira dai doveri professionali e dalle aspettative sociali – solo che non siamo in uno studio legale della Wall Street di metà Ottocento, ma in futuristiche navicelle spaziali dirette verso altri pianeti nelle quali troviamo, al posto di impiegati di varie classi sociali, esseri umani e le creature sintetiche SIN. Linzi ha la felice intuizione di non spiegare che cosa rappresentano Miss Bartleby e il suo rifiuto di conformarsi ai doveri sociali: la sua ribellione è un atto di libertà estremo e paradossale e come tale apre infiniti mondi possibili; Linzi evita quindi di proporre una propria interpretazione e anzi si fa beffe dei molti modi in cui si può interpretare il “avrei preferenza di no” della protagonista. Detto questo, la seconda parte è decisamente meno riuscita della prima: lenta e noiosa, appesantita dalle strane inflessioni dei personaggi – ogni tanto si rimpiange l’inintelligibile grammelot del primo atto – e da una storia che apparentemente non prosegue ma si avvita su sé stessa.

Alla fine il pubblico rimasto fino alla fine si sente come Turkey, l’anziano impiegato del racconto originale che è di buon umore al mattino ma insolente al pomeriggio: benevoli verso le eccentricità del primo atto, ma poco disposti verso le lungaggini della conclusione (l’altro impiegato dello studio legale, Nippers o Pince-Nez, è un giovane intrattabile al mattino e gentile al pomeriggio, che se vogliamo è il pubblico che ha lasciato la sala prima del secondo atto).

La recensione di ‘Miss Bartleby. Non è tempo di essere’ deve necessariamente chiudersi con una nota di merito sia per le scenografie (di Giulia Bandera e Ryan Contratista), sia per attori e attrici la cui bravura, soprattutto nella prima parte, ha reso possibile arrivare fino in fondo: in ordine alfabetico, Stefania Apuzzo, Micaela Brignone, Fabio Brusadin, Simone Carta, Sabrina Faroldi, Arianna Granello, Marco Mannone, Stefano Slocovich, Paola Tintinelli e Magda Zaninetti.

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