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Franco Facchini, la realtà fugace ed effimera

Un ricordo del poeta e scrittore, scomparso nei giorni scorsi a Bellinzona

A Milano, nella stamperia di Daniela Lorenzi, qualche anno fa
19 aprile 2024
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Franco Facchini era diventato bellinzonese per puro caso, o meglio, per quei misteriosi intrichi e intrecci dell’esistenza che portano gli artisti a inseguire la vita per cercare il senso di un proprio originale “percorso”, anche biografico, unico e irripetibile; un percorso, il suo, che dalla nativa Bologna, lo aveva condotto attraverso Trieste fino a Zurigo, per poi trasferirsi, definitivamente in un modesto caseggiato bellinzonese, solo e appartato, dentro un appartamento tappezzato di libri rari e antichi.

Facchini era nato nel 1951 in una città, Bologna appunto, in cui ferveva un’aria di rinnovamento, nelle lettere come nell’arte; per lui, lì, il maestro per eccellenza era stato Roberto Roversi, poeta (e anche, per qualche anno, autore dei testi di Lucio Dalla) che alla notorietà della sua attività in ambito discografico aveva opposto e scelto, definitivamente, la cura scrupolosa, oltre che dei suoi versi, della propria libreria antiquaria, la mitica Palmaverde, in cui Facchini ha trascorso ore, giorni, ad apprendere il piacere della lettura, della scrittura e la passione per i libri come oggetti d’arte.

Facchini era poeta e autore di radiodrammi di grande e raffinata cultura, che amava leggere testi antichi o moderni e contemporanei, specie se li scovava in edizioni rare, magari numerate, stampate in pochi esemplari, così come il destino ha voluto per la sua personale produzione, disseminata in volumi di editori d’arte, a eccezione della sua raccolta più corposa e completa, uscita nel 2020 a Milano da Marcos y Marcos con il titolo ‘La parvenza del vero’ per intercessione persuasa e benevola di uno dei suoi diversi amici ed estimatori ticinesi, Fabio Pusterla. Ma fra amici ed estimatori, capaci di sfidare la sua ritrosia nei confronti di qualsiasi forma di autopromozione esprimendo giudizi lusinghieri sulla sua opera, vanno annoverati certamente anche lettori e critici esperti come Matteo Pedroni, Pietro De Marchi, vanno ricordati autori cui era molto affezionato, come Anna Felder e Federico Hindermann e va segnalato, primo fra tutti, l’artista bellinzonese Luca Mengoni, che con Massimo Prandi da anni si propone anche come editore di pregevoli volumi di prosa e poesia pubblicati con l’insegna ‘Sottoscala’ e che ha dato alle stampe significative sillogi di Facchini (si pensi a ‘Disperata e senza luogo’, del 2012, per esempio).

Non era certo facile rompere quel certo naturale riserbo che caratterizzava il modo di essere, lucidamente e drasticamente ironico e autoironico, di Franco Facchini, quel suo evocare una sorta di personale evanescenza, di sé e della propria opera, che toccava all’editore ostinato contrastare con uno o l’altro progetto editoriale, di un libro, di una plaquette.

A quel punto Facchini era disposto a cedere, a mettersi a scartabellare fra i suoi dattiloscritti per mettere insieme una fascina di versi che proponeva con una specie di distacco critico tutto suo, come se quei testi non gli appartenessero se non perché frutto di un istante, di un momento creativo, un barlume fissato su un foglio che poteva poi essere anche tranquillamente dimenticato, o divenuto, a suo dire, approssimativo, non riuscito, superfluo.

Facchini era autore dubbioso e dubitativo per natura ed elezione, anche nello stesso orientamento dei suoi testi, che rimandavano, come dice bene il titolo del volume di Marcos y Marcos, a una percezione della realtà racchiusa dentro un ossimoro, dove “il vero” è rintracciabile solo ed esclusivamente come “parvenza” e dunque, in un certo senso, nella sua negazione o, se vogliamo, nella sua ineffabilità.

Del resto, far visita a Franco Facchini, in quel suo appartamento bellinzonese, significava non di rado, finire per accettare che a un certo punto le parole non bastassero più, o erano finite, e il dialogo, per quanto possibile, diventava quello silente dell’ascolto del suono, a tutto volume, di musica vocale medievale e rinascimentale, di cui era cultore ed esperto, per trovarsi così avvolti o immersi nella malìa di voci che rimbalzavano da una libreria all’altra delle pareti di casa, effimere, conturbanti, fuggevoli.

Era forse questa la maniera più autentica di “parlare” agli amici e ai lettori che sapeva e voleva esprimere Franco Facchini: la musica come poesia e la poesia come una musica che ti interroga, togliendoti quasi il respiro, dentro una sorta di spirale fatta di frammenti di verità immediatamente e specularmente mitigati dal dubbio, dall’incertezza, da una percezione di sé e del mondo come di qualcosa di inafferrabile (e forse anche trascurabile). Lo si percepiva ancor più nelle occasioni in cui arrivava persino a “concedersi” come lettore dei propri versi e in cui si poteva cogliere, nel suo “intonare” le parole, una propensione al puro canto, che si accendeva e spegneva nel tempo di un fiammifero con cui, per anni, ha alimentato il fumo profumato ed evanescente della sua pipa.

Un mondo in cui perdersi, quello di Franco Facchini, fra verità e illusione, fra buio e luce, dentro i propri “contorni” costantemente mutevoli e sfuggenti che i versi che ci ha lasciato in eredità sanno però ancora far risuonare, conturbanti, come fossero un mottetto o un madrigale.

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Da “Disperata e senza luogo”

Così assurdamente

non io

non vero

mi sembrava talvolta

di riuscire

a stare dentro ai contorni

a una qualche sequenza di giorni

ma poi essere preso dal senso

di non esserci più.

E la paura mi prende

se scopro di essere

qui a sentirmi

nelle cose

che stringono stretto

tutto il fragile

sogno che sono.

In una parola

racchiuso

nel suo suono

soltanto

divento io stesso

eco del suo silenzio.

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