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E che voglia di vivere ancora

Non un epistolario, tantomeno un romanzo, piuttosto un’autobiografia, che permette a Roberto Vecchioni di raccontarsi ‘Tra il silenzio e il tuono’

Il Professore

“Vai, ora vai, ora sai, va tutto bene: ho forti stelle, ho chi mi dà la mano, non ha più senso che stiamo insieme” cantava Roberto Vecchioni in una canzone del 1997 che ha per titolo ‘Love song (Despedida)’; era un discorso d’amore e d’addio tra un uomo e la sua anima bambina. È proprio vero che ogni grande artista spesso scrive lo stesso libro, quasi ossessionato da un’idea che nasce, sembra esaurirsi, ma poi ritorna con un vestito nuovo. A 27 anni di distanza la voglia di raccontarsi è diventata un libro pubblicato in febbraio da Einaudi che ha per titolo ‘Tra il silenzio e il tuono’, un frammento di ‘Chiamami ancora amore’, canzone che ha vinto a Sanremo ma che lo stesso autore non considera rappresentativa del suo percorso poetico e musicale. Questa volta però il cantante, nel frattempo diventato nonno, non dice addio al bambino che è stato, ma invece lo ascolta raccontare diversi momenti importanti della sua vita, senza però mai rispondere, scrivendo a sua volta lettere a destinatari reali o forse anche immaginari. È per il nonno un modo di riflettere su vari temi dell’esistenza, sulle cose vissute, spaziando dagli amati greci alla musica di Mozart, Beethoven e Schubert; dall’amore che, come scrive T’sun Chin, è una scacchiera dove si ingarbugliano i pezzi, un’aquila con ali di farfalla, al ricordo del papà che scommetteva sempre su cavalli perdenti sperando che avrebbero vinto un giorno. E poi ancora l’amata letteratura che fa dire al nonno che avrebbe scelto di andare a cena con Petrarca invece che con Dante, preferendo l’idea di speranza del primo alla fede granitica del secondo, senza dimenticare la quotidianità fatta anche di traffico stradale e di difficile convivenza tra automobilisti e pedoni.

Progressivamente le lettere di Roberto che cresce e del nonno finiscono per fondersi. L’ultima, delle 53 che compongono il libro, il nonno la scrive a sé stesso, lui e il bambino sono ormai una cosa sola. Silenzio e tuono insieme.

Non si tratta di un vero epistolario e nemmeno di un romanzo, ma piuttosto di un’autobiografia che permette all’autore di raccontarsi, e a chi legge di conoscere pezzi di vita che da canzoni, liberati dalle esigenze del testo breve e da musicare, diventano un racconto in cui possiamo anche specchiarci. Un libro toccante e riuscito, molto intimo, a mio parere il più bello di quelli scritti da Vecchioni.

Incontri e addii

I primi momenti che Roberto ricorda nelle sue lettere sono, un po’ come i nostri, segnati dall’ambiente familiare: incontriamo il papà Aldo che è sempre con le schedine del totocalcio in mano e non vince mai, la mamma che si impiastriccia la faccia di maschere e di creme, qualche malanno che comincia a rigare la vita di inquietudine. Più in là la scuola con la maestra che, incrociando le gambe, dà vita all’istinto che spinge verso un altro amore, l’eros che è desiderio e mancanza, incontri e addii come quello della ragazzina di ‘Luci a San Siro’ che lo lascia dopo avere vissuto un momento d’intimità con uno svizzero a Bellaria. E la morte del papà, raccontata in ‘Samarcanda’, che ispira un tragico “oh oh cavallo oh oh” che pochi capiscono perché fa pensare a una specie di filastrocca per bambini, ma che segna l’inizio spiazzante della notorietà.

Tutto quello che segue, già tracciato dalle sue canzoni, lo troviamo nelle lettere successive: la nascita della figlia Francesca, la rottura con la prima moglie, l’alcol “lento fiume nelle vene” e poi la seconda moglie Daria come un appiglio e un capitolo nuovo, gli altri tre figli. Senza dimenticare i problemi di salute, l’intervento a un polmone, a un rene, alla prostata che riportano pesantemente coi piedi per terra: “Finito il momento magico del coltello in volo” che è stare sul palco, “il lanciatore è solo”. In una lettera Vecchioni racconta anche della paura all’inizio dei concerti, sempre uguale anche dopo più di quarant’anni, quando l’altro sé stesso entra in scena sfinendosi di canzoni, prima di fare rapidamente i conti, alla fine del concerto, con la persona reale: che deve ricordarsi di chiamare l’idraulico, non deve dimenticare l’appuntamento dal dentista e deve pensare ai regali da fare alle nipotine.

Grigio e pioggia, fiori e vita

È aprile, mese che quest’anno è iniziato con il grigio e la pioggia, ma che è già un tripudio di fiori, di linfa e di vita che preme. Per me che scrivo è anche il mese del volo di un figlio partito a trent’anni una quindicina di anni fa: l’impressione è che il mondo troppo bello che aveva dentro fosse inconciliabile con la vita che obbliga a perdere l’innocenza. “Sentinella dell’estate, promessa e nostalgia” chiamava maggio la poetessa Patrizia Cavalli, lo stesso posso dire di aprile, quando un frangente della vita di Roberto Vecchioni si sovrappone alla mia: nelle ultime pagine racconta della malattia del figlio Arrigo, pure volato via un anno fa, lo stesso mese. Di lui scrive: “Che il mondo è il rovescio del tuo cuore. Che tu non hai il cuore per il mondo”.

In una lettera successiva descrive un concitato momento emotivo che conosco, e che non trova parole, una telefonata e niente sarà mai più come prima: “E la madre è una statua e Caro l’abbraccia e Dodi l’abbraccia, Francesca l’abbraccia ed è un capolavoro d’amore”. Poi arriva il tempo del pianto, il dolore da accogliere come si accoglie la vita, perché piangere vuole dire vivere. “Tenersela dentro, quella tempesta, è come darla vinta al destino” scrive Roberto in una delle ultime lettere che si conclude con un pensiero che faccio anche mio: “Nessuna fine ti addormenti l’amore”.

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