LUGANO

Guido Gozzano in veste da camera

Una conferenza di Marco Maggi ha inaugurato all'Usi un ciclo sui poeti del Novecento

Un fotogramma dell’incontro
(laRegione)
9 ottobre 2023
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È una stimolante avventura del pensiero provare a ricostruire i ferri del mestiere di uno scrittore, la genesi della poetica e dei temi ricorrenti, l'origine dei vezzi lessicali che ha fatto propri. E soprattutto scovare i prestiti, le suggestioni degli autori del passato, le importazioni da altre letterature, come ha fatto il professor Marco Maggi nella conferenza su Guido Gozzano, che ha aperto all'Usi un ciclo, a cura dell'Istituto di studi italiani, dedicato ai poeti del Novecento. Così abbiamo scoperto, nei versi de ‘La signorina Felicita’ (componimento incubatore e insieme epitome di tutta l'opera gozzaniana), che la "servente indigena e prosaicissima", ha una antecedente nell'omonima domestica di ‘Un cuore semplice’ di Gustave Flaubert, che la riflessione sul rapporto tra vita e arte prende spunto da ‘Le vergini delle rocce’ di D'Annunzio, e che "quel dolce paese che non dico" confina col borgo della Mancia di cui Cervantes non ricorda il nome.

Quello con D'Annunzio, aggiungiamo noi, è un rapporto complesso, di ispirazione ma non di totale adesione: in uno dei rari riferimenti a un'entità superiore e (si spera) intelligente, il poeta torinese la ringrazia perché "Invece che farmi Gozzano / un po‘ scimunito ma greggio / farmi gabrieldannunziano / sarebbe stato ben peggio!". Non solo: in ’Maia‘ il Vate esaltava in Ulisse il modello di un'umanità superiore, Gozzano lo declassa a "un tale / che diede col vivere scempio / un bel deplorevole esempio / d'infedeltà maritale": avviene ne ’L'ipotesi‘, in cui Maggi rileva un'interessante serie di corrispondenze con ’La signorina Felicita', tra cui la figura della moglie. Una donna paziente, accogliente, dimessa, decisamente scialba, dalle attitudini casalinghe e dalla scarsa dimestichezza con le noiose e inutili fanfaluche degli intellettuali, mostri mitologici privi di senso pratico e lontani dalla concretezza della vita, al punto che Gozzano si pente di sprecare il proprio tempo scrivendo versi.

O, meglio: finge di pentirsene, perché in realtà l'alto e il basso, l'aulico e il prosaico, convivono serenamente, valorizzandosi (e sminuendosi) a vicenda, come nella gentile creatura "che porta le chiome lisce sul volto rosato / e cuce e attende al bucato", o nella casa che ricorda "una dama secentista" che veste da contadina. È questa la temperatura in cui Gozzano coltiva la sua disperazione calma, senza sgomento, lo sguardo ironico e disilluso con cui abbraccia, senza stringerla, una vita destinata a finire presto, tra la "Signora vestita di nulla" che sta per svoltare l'angolo e raggiungerlo, e un quadrifoglio che è lì, a portata di mano, ma non verrà colto, come le sole rose degne di essere amate, evocate in veste da camera con un sorriso amaro per ciò che non sarà.

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