Culture

Milan Kundera, lo scherzo e l'oblio

La fortuna editoriale dovuta a un ‘gioco’ del destino e una sfida al totalitarismo filosofica, formale e letteraria, più che politica

Milan Kundera 1929-2023
(Keystone)
12 luglio 2023
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Uno scherzo per favorire un altro scherzo: come la moglie, canzonandolo, amava ricordargli, Milan Kundera (morto martedì 11 luglio in Francia all'età di 94 anni) doveva la fortuna editoriale a un capriccio del destino, che gli aveva truccato le carte ritardando, dopo un primo rifiuto, la pubblicazione in Francia del primo romanzo (intitolato, per l’appunto, Lo scherzo), per farla coincidere con l’invasione russa della Cecoslovacchia. Complice un’entusiastica prefazione di Aragon, venne così arruolato nel rispettato novero dei dissidenti, persino ben oltre le sue intenzioni: detestava e condannava senz’altro l’illiberalità del comunismo reale e la condizione di vassallaggio a cui il regime sovietico assoggettava gli Stati satelliti, ma, benché in Occidente lo avessero salutato come un coraggioso avversario del totalitarismo, la sua sfida era stata filosofica, formale, letteraria, più che politica.

I fraintendimenti, gli equivoci, i deragliamenti delle conseguenze delle azioni più futili dalle intenzioni dei loro autori, gli effetti dello scorrere del tempo sulle persone e sui loro ricordi sono infatti i veri temi dell’esordio: la vita di uno studente viene rovinata per avere provocato, con qualche stupidaggine inviata per cartolina, una ragazza che lo trascura per i corsi di partito. L’ingenuo colpo di una schermaglia amorosa, sferrato però in un paese immerso nel sospetto e nella tetraggine, viene interpretato dagli zelanti e ottusi tutori dell’ordine costituito come l’indizio di un atteggiamento ostile alle istituzioni, destinando lo studente alla stessa fine di quell’ometto di Mordillo che viene arrestato dai gendarmi per aver osato colorare la sua casetta in una città tutta grigia.

La vita, che trae un piacere maligno dal confondere chi si vanta di poterne plasmare il senso (è un’osservazione di Finkielkraut), si incaricherà di rendere inutili i propositi di vendetta, cancellando i torti e le ragioni. Sono anni in cui, in certe latitudini, solo scherzando e fingendo di riferirsi ad altro si può dire ciò che realmente si pensa: nella Ddr la giovanissima Nina Hagen, non ancora paladina del punk, in Du hast den Farbfilm vergeßen allude a una monotonia priva di fantasia e di prospettive rimproverando l’incauto fidanzato, con cui è partita per le vacanze, di aver dimenticato la pellicola a colori per la macchina fotografica. Kundera, al contrario, si sofferma su aspetti modesti, comici e patetici delle contingenze politiche per riferirsi, in realtà, a temi eterni della condizione umana, come nell’incipit de Il libro del riso e dell’oblio, che pubblica nel 1978, a tre anni dall’esilio in Francia, e che l’anno dopo gli varrà il ritiro della cittadinanza cecoslovacca: vi si ricorda Clementis, un lacchè del presidente cecoslovacco Gottwald, che venne sbianchettato da una celebre fotografia ufficiale dopo essere stato accusato di tradimento e impiccato. “La sezione propaganda lo cancellò immediatamente dalla storia e, naturalmente, anche da tutte le fotografie. Da allora Gottwald, su quel balcone, ci sta da solo”, col berretto di pelliccia che Clementis gli aveva prontamente offerto per ripararsi dal freddo: “Di Clementis è rimasto solo il berretto sulla testa di Gottwald”. Il tema è dunque l’oggetto dell’oblio: a livello collettivo, Kundera riflette su una nazione che perde la coscienza della sua identità e della sua storia ha cominciato a morire; a livello individuale, segue gli sforzi di una vedova per trattenere il ricordo del marito, nel timore che dimenticarsi di lui significhi perdere la propria identità e dunque smettere di esistere.

E se c’è dell’altro, Kundera non ha voluto dircelo: in una delle rarissime interviste che, convinto che per un autore parlino sufficientemente le opere, si decide a rilasciare, dichiara che quando un autore parla di un suo libro, tutti si annoiano e iniziano a sbadigliare, “e io non voglio che capiti questo”. Dopo una memorabile apparizione ad Apostrophes nel 1984, preferisce affidare i suoi personaggi, come si addice a un classico, direttamente ai lettori, invitandoli a scovare le risposte nelle loro stesse domande, perché, come dice Heidegger, l’essenza dell’uomo ha la forma di una domanda.

Ed eccole, queste vittime delle beffe più o meno sinistre (e degli scherzi più o meno tragici) in cui sembra risolversi ogni vita: il giovane e tenero poeta Jaromil de La vita è altrove, che impara a sue spese che essere assolutamente moderni significa diventare alleati dei propri becchini, o la donna matura che ne L’immortalità, uscendo dalla piscina, saluta sorridendo l’istruttore di nuoto con un gesto talmente elegante e fuori dal tempo da rivelare per un istante la bellezza e il fascino di una ventenne, o i borghesi che si aggirano smarriti negli ultimi romanzi, composti in francese, o le due coppie di amanti che, ne L’insostenibile leggerezza dell’essere, constatano sulla loro pelle – osserva Calvino nelle Lezioni americane - l’ineluttabile pesantezza del vivere, che “per Kundera sta in ogni forma di costrizione: la fitta rete di costrizioni pubbliche e private che finisce per avvolgere ogni esistenza con nodi sempre più stretti”. Forse solo la vivacità e la mobilità dell’intelligenza, prosegue Calvino, sfuggono a questa condanna, a cui Kundera, memore dell’invasività orwelliana al di là della Cortina di ferro, ha ostinatamente cercato di sottrarsi, persuaso che “vivere senza potersi nascondere dallo sguardo altrui è l’inferno” e che “senza riservatezza niente è possibile: non l’amore, e nemmeno l’amicizia”. E su questo non ha mai scherzato.

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