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Officina Beltrami. Cogliere il rumore del mondo

Intervista all’autore di ‘Il mio nome era 125’ e ‘Cercate Fatima Ribeiro!’, ma anche di tanto altro. Matteo racconta i suoi passi nella narrazione.

2 luglio 2022
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"Cogliere il rumore del mondo" è un’espressione - non mia, me la disse una volta Erminio Ferrari - che ben s’attacca all’attitudine e al fare narrativi di Matteo Beltrami. Nato a Locarno all’inizio degli anni Ottanta, Matteo oggi vive a Torino. Negli anni è stato postino, magazziniere, cuoco, cameriere, ristoratore. Poi è diventato operatore sociale, lavorando per tanto tempo a progetti di strada in Svizzera, Brasile e Bolivia. Il mestiere di educatore lo porta avanti ancora adesso. Soprattutto però Matteo è uno scrittore. La scrittura, scoperta in adolescenza, «per buona parte della mia vita è stata una forma di divertimento, ho scritto senza particolare costanza e a volte per assomigliare a coloro che per me erano i miti della parola scritta. Questi esercizi mi hanno avvicinato alla maturazione di un mio stile». Autore di racconti, anche audio, e di due romanzi (almeno quelli editi) - ‘Il mio nome era 125’ (Edizioni Ulivo, 2019) e ‘Cercate Fatima Ribeiro!’ (Edizioni Ulivo, 2022) -, Beltrami continua a scrivere per sé e per gli altri, perché in fondo «la narrativa è il verso dell’essere umano».

Siamo partiti dalla sua avvincente e recente pubblicazione - che si legge in un soffio - per compiere un viaggio alla scoperta della sua "officina narrativa".

Nonostante nelle prime pagine ci sia la classica avvertenza ‘in quest’opera, nomi, personaggi (…) sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualsiasi somiglianza (…) è del tutto casuale’, la storia di Darko e Fatima è molto realistica. Quali sono state le tue fonti? C’è stato un particolare evento di cronaca che ti ha spinto a raccontare la vicenda?

‘Cercate Fatima Ribeiro!’ è una sorta di sceneggiatura, una fiction che però ha origine in fatti di cronaca e in dettagli o situazioni che ho osservato. Qualche anno fa rimasi colpito da alcuni articoli che riportavano di punti di spaccio nascosti fra i boschi, nelle valli sulla linea di confine fra la provincia di Varese e il Ticino. Per molti quelli sono i luoghi della "ramina": la linea di confine che demarca il "dentro" e tiene a distanza il "fuori". Il mio libro passa metaforicamente attraverso i buchi della ramina, che sferragliante lentamente cede nel suo simbolismo. Le ambientazioni sono volutamente noir, anche se non manca l’ironia. Alcune situazioni richiamano il cinema. Nomi e cognomi sono fittizi e casuali, anche se riconducono al nostro territorio. Quasi sempre quando scrivo, non invento nulla, questo è il mio stile. I ragazzi e le ragazze inoltre ogni tanto scompaiono, proprio come Fatima.

In questo romanzo c’è tanto. Tratta di esseri umani, contesto giovanile difficile, rapporto genitori-figli, esaurimento professionale. Perché intrecciare così tanti fili esistenziali?

Per citare un amico che si è espresso in merito al libro: "destruttura la lacca brillante della nostra terra mostrandone le rughe e le cicatrici" (l’amico è lo scrittore Giorgio Genetelli; ndr). Credo pertanto che il plurale intreccio delle storie di vita dei personaggi, portatrici di tematiche, sia racchiudibile nell’unico e grande tema dell’erranza. Ogni protagonista vive un personale stato di pena, un vagabondaggio dell’anima. Vige in ognuno un senso d’incertezza dotato però di un’autoironia sottile. Tutti insieme danno vita a un’unica vicenda. C’è chi è fuggito dalla Bosnia negli anni 90, c’è chi fugge dal Ticino, c’è chi è già considerato matto e chi teme di esserlo diventato. I fatti principali accadono di notte, nell’insicurezza del buio. Inoltre i personaggi chiave, coloro che condurranno alla risoluzione dei misteri, vivono nell’astrazione della follia.

Quanto è presente il Matteo educatore e operatore sociale, la tua esperienza personale? Qui e in generale nei tuoi testi.

La connotazione che è stata attribuita al mio primo romanzo ‘Il mio nome era 125’, vista la tematica, è inevitabilmente legata alla mia identità professionale. I miei libri e i miei racconti però non sono dei saggi e nemmeno io lo sono più di tanto. Non scrivo da operatore sociale. In realtà nella mia scrittura cerco di fare l’esercizio opposto, quello di liberarmi dei miei ruoli professionali. Nel primo romanzo a parlare era soprattutto un figlio, ruolo ben più arduo. Mentre in questo secondo libro a parlare è Darko, un alter ego che ha preso vita dalla mia parte più errante, che è piuttosto consistente. ‘Cercate Fatima Ribeiro!’ poi è anche una finestra su mondi sommersi che in molti di norma non vedono e se qualcuno mi chiede di raccontare di questi mondi lo posso fare, anche grazie al mio mestiere.

È il libro di un’estate, si legge da qualche parte. Davvero ci hai messo così poco nella stesura?

Si è la verità. Mi sono isolato a inizio luglio e a fine agosto la prima bozza era scritta. C’è chi dice che un libro non si possa mai finire per davvero, nemmeno dopo la stampa e io concordo. Avevo bisogno di quell’isolamento e di non fare altro che scrivere. Avevo anche bisogno di fare un passo verso "l’altrove" rispetto al mio primo romanzo, che tutt’oggi mi impegna molto. Dovevo costruire un tassello, una via di passaggio fra quella prima pubblicazione e la mia narrativa futura. Credo che la storia di Darko e Fatima sia il risultato giusto della mia ricerca.

Parliamo degli ‘elementi di contorno’ che arricchiscono di sfumature la storia, come per esempio la guerra nei Balcani. In generale, come ti sei preparato?

Darko, sua sorella Stella e la loro mamma Emina, sono arrivati in Ticino da Srebrenica poco prima che fosse compiuto il massacro (luglio 1995) ormai noto e studiato in ogni parte del mondo. L’anno precedente alla scrittura del romanzo avevo viaggiato lungo una rotta che mi ha portato a visitare tutta la Penisola Balcanica. Ho visto i luoghi di nascita di diverse persone che conosco in Ticino. Ero da solo e ho avuto il tempo di immergermi in pezzi di storia. La mia conoscenza della storia di quelle immense e splendide regioni rimane comunque molto limitata, ma per alcuni suoi capitoli ho sentito una vicinanza.

Cosa ti muove alla scrittura?

Non mi va ancora di pensarci. Il richiamo all’atto fisico della scrittura è troppo forte e per ora voglio soltanto assecondarlo. Però come vedi posso parlare di quello che scrivo.

Quando nasce il Matteo narratore: c’è una ‘data’ oppure la scrittura ha radici lontane nel tempo?

Pensandoci credo che prima del narratore nasca l’ascolto. È necessario il silenzio per vedere le storie degli altri. A volte il silenzio è d’obbligo perché le storie altrui prendono il sopravvento. La scrittura l’ho scoperta da adolescente, anche grazie a tre adulti che ho incontrato sull’arco degli anni. Per buona parte della mia vita è stata una forma di divertimento, ho scritto senza particolare costanza e a volte per assomigliare a coloro che per me erano i miti della parola scritta. Questi esercizi mi hanno avvicinato alla maturazione di un mio stile. Forse oggi più di ieri reputo la scrittura un’esperienza estremamente dura. Qualcuno apre un tuo libro e ti guarda nel cranio, nel petto. È un selciato sul quale bisogna camminare piano.

Prima di questo romanzo, c’è stato ‘Il mio nome era 125’ e sul tuo sito si leggono ancora una manciata di racconti brevi e un audio-racconto. Come concili la tua professione con la scrittura?

Penso che la sfida sia conciliare la scrittura (che viene prima in ordine di importanza per me) con la mia professione. Ultimamente ho scelto di lavorare meno proprio per questo, ma non è facile. I tre racconti brevi sul mio sito sono rappresentativi e cambiano periodicamente. Il racconto breve è qualcosa che avviene spesso, può trovare spazio anche in un fine settimana, durante una notte senza sonno. Può essere la consolazione di una pausa pranzo passata davanti al Pc a mangiare roba preconfezionata. Restano comunque dei momenti rubati e cronometrati. Mi spiacerebbe suonare retorico ma ho l’impressione che lavoriamo troppo, infatti spesso ci sfugge il senso di quello che facciamo. Forse ha ragione Darko nel ritirarsi con il suo esaurimento.

E del Matteo lettore che mi racconti: di quale letteratura ti nutri?

Ho la tendenza a cercare ciclicamente le sensazioni che ho provato da ragazzo quando scoprivo certi autori. Allora mi confortava sapere che esistevano persone capaci di scrivere in quel modo. A volte dunque ho bisogno di "ritornare a casa" e riapro un libro di Edward Bunker, Joe Lansdale, Charles Bukowski, Truman Capote, Corman McCarthy. Le idee mi si schiariscono anche rileggendo i noir di Manchette e Izzo.

Libro sul comodino (letterale o metaforico che sia; il comodino intendo)?

Sono andato a guardare ed ecco cosa ho trovato: ‘Limonov’ di Emmanuel Carrère (Adelphi); ‘Torino Magica’ di Vittorio del Tufo (Neri Pozza); ‘Il mago’ di Somerset Maugham (Adelphi).

Appendice. Cos’è il Progetto Mercurio?

È sostanzialmente la proposta di un ritiro per dedicarsi alla scrittura autobiografica e al racconto del sé. Con il passare degli anni mi sta capitando di scoprire la valenza terapeutica della scrittura e in tal senso mi sto formando. Esistono parole che usiamo per raccontare noi stessi, che possono risultare salvifiche così come il contrario. L’auto narrazione è qualcosa a cui ci dedichiamo di continuo, anche senza accorgerci. Il fatto è che ci definisce e può determinare le nostre traiettorie. Il Progetto Mercurio è aperto a chiunque si senta interessato, così come a piccoli gruppi. Vuole creare delle dimensioni temporanee prive di funzionamento (inteso come prestazione e adesione ai ruoli che abbiamo nella società) e colme di ascolto, ma anche di tempo per scoprire, tramite delle tecniche mirate, la scrittura ispirata alla propria storia di vita o importanti capitoli di essa. Alla fine del ritiro i partecipanti ricevono un racconto ispirato a quanto emerso.

www.beltraminarrativa.ch

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