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Pietro Sarto all’infinito

‘Metamorfosi infinite’ è la mostra che si apre oggi al Museo Villa dei Cedri, dedicata a un artista che ancora si sente ‘un ticinese nel Canton Vaud’

Da sinistra, ‘Ciel d’été’ (1998), ‘Petite Sortie de l’Enfer’ (2006) e ‘Nature morte aux iris’ (1959). Fino al 29 gennaio (iniziative collaterali su www.villacedri.ch)
24 settembre 2022
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Il giorno prima si era commosso vedendo le proprie opere esposte con tanta cura, ma non è per questo che alla presentazione della mostra a lui dedicata ha scelto il silenzio. Il chiassese di nascita Pietro Sarto, trasferitosi giovanissimo a Neuchâtel poi a Losanna, prende la parola solo per una puntualizzazione; solo per dire, laddove si parla di fotoincisione, che di fotografie non ne esistono nella sua produzione, se non per la stesura della gelatina bicromata, alla base dell’invenzione della fotografia. "Niente Kodak". Una puntualizzazione, detta con grazia. Anzi due: "Questo posto è perfetto per dare valore alle piccole cose, che in un grande museo si possono perdere".

Spirito investigativo

‘Pietro Sarto - Metamorfosi infinite’ è la mostra che si apre oggi al Museo Villa dei Cedri di Bellinzona per restarvi fino al 29 gennaio. È stata ideata da Florian Rodari, curatore della Foundation William Cuendet & Atelier de Saint-Prex di Vevey, ha subìto lo stop pandemico per essere infine estesa e curata per Bellinzona da Carole Haensler, conservatrice del Museo Villa dei Cedri e direttrice di Bellinzona Musei. L’ottantina d’incisioni e la quindicina di dipinti organicamente ivi esposti sono un racconto lungo quasi cinquant’anni che testimonia la voglia di sperimentazione di Sarto, ridotta dai massimi – il lavoro finito – ai minimi termini, provando cioè a svelare i processi artistici che portano dalle tele alla carta e il percorso esattamente inverso, comprese alcune tappe intermedie. Durante la presentazione, con ampia presenza di losannesi e ginevrini, proprio Rodari riassume "lo spirito investigativo" di Sarto, e lo sforzo per dare dignità a quel lavoro un tempo "nascosto nei cassetti delle case d’arte".

"Dipingo per soddisfare una certa curiosità. Vorrei conoscere la forma delle cose. Vorrei conoscere la forma del mondo. Vorrei sapere qual è la mia posizione rispetto a tutto questo"

Classe 1930, Pietro Sarto (Pietro Schneider all’anagrafe) è uomo che sperimenta tecniche e strumenti. La mostra mette in dialogo incisione e pittura; il linguaggio che ne deriva è traducibile in acquetinte e fotoincisioni a colori. Quanto si vive tra i due piani del museo è un racconto lungo quasi cinquant’anni. «Tutta la mostra si muove attorno a questi esperimenti», ci spiega Carol Haensler. «Per Sarto, la cosa si ripropone anche nella pittura, quel suo voler usare ancora i pigmenti, fatta eccezione per il bianco, scelta che ci porta nell’artigianato dell’artista e che ci conduce alle radici stesse della pittura».

Il Ticino pareva essersi dimenticato di Pietro Sarto. L’unica monografica a lui dedicata risale al 1991; quella volta era la Sala Diego Chiesa di Chiasso. «Questo lungo intervallo – commenta Haensler – può spiegarsi con il fatto che le sue opere sono presenti solo nelle collezioni private, e per quanto la sua famiglia comprendesse farmacisti noti tra Chiasso e Mendrisio, una volta in pensione queste persone hanno lasciato la Svizzera italiana per l’America del Sud».

"Sono un pittore locale, dipingo dove mi trovo. Ma ho un’ambizione enorme, cerco di dare una forma al Lago Lemano"

L’albero, il Castello di Chillon in riva al Lemano, la romantica ‘Pétite barrière’ sono soggetti che ritornano in Pietro Sarto. Ancora Haensler: «"Ogni volta che ci vado è un soggetto nuovo", mi ha detto della Pétite barrière. Tutti i paesaggi, d’altra parte, cambiano in funzione dei nostri stati d’animo, dell’aria, sono sempre soggetti nuovi. Sarto ricerca una atemporalità, tenta di fermare il paesaggio per dargli quell’eternità che sempre si vorrebbe dall’arte, non riuscendovi in quanto sempre nuovo». Lo stesso vale per il Castello di Chillon: «Cinque settimane fa l’ho visto di nuovo al lavoro su quel soggetto, cinquant’anni dopo, in linea con la dichiarata necessità di rappresentare quel che osserva, il rapporto diretto con la realtà da cui ogni sua opera dipende. Non può fare qualcosa che non abbia visto o vissuto».

Gli ‘sradicati’

"Io non voglio parlare. Potrei raccontare degli aneddoti ma non sono gli aneddoti che fanno il valore dell’opera o la storia che vi sta dietro".

Quest’ultimo virgolettato non viene dal catalogo curato da Florian Rodari. È quanto ha detto Pietro Sarto a Carole Haensler prima della conferenza stampa. E in tempi in cui il raccontarsi è diventato bisogno corporale, ben venga il silenzio artistico. A più di novant’anni dalla nascita, e al netto di tutto quello che è accaduto, Sarto si sente sempre "un ticinese nel Canton Vaud". Il senso d’appartenenza ci porta al rapporto dell’artista con la letteratura, filo conduttore della mostra e legame pubblicamente rivendicato. Le visioni del Paradiso e del Purgatorio dantesco, così come l’imponente ‘Sortie de l’Enfer’ (olio su tela), sono alcuni degli esempi esposti. «Vedendo la scelta dei testi – Dante, Celan, Mandel’štam – si nota la predilezione per gli ‘sradicati’, per coloro che hanno dovuto trovare nuove radici sapendo di non poter tornare nel posto che consideravano casa loro. Questa condizione – conclude Haensler – è vissuta da Sarto sin da quando, 12enne, deve lasciare il Ticino a causa del lavoro del padre, dipendente delle Dogane; quando si sposta a Neuchâtel non parla una sola parola di francese e viene trattato come un italiano, come uno straniero. La cosa lo ha segnato per sempre. In questi autori Sarto cerca di trovare una sua affinità spirituale, elettiva».

Pietro Sarto ha chiesto una copia del manifesto della sua mostra bellinzonese: «Per lui vale tanto, è ansioso di mostrarla ai vodesi, ha già individuato la vetrina che la ospiterà».

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