laR+ Il ricordo

Anatomia deformata di Fernando Botero, opere in volumi

Artista colombiano, epidermico e profondo, scoprì un’angolazione nuova da cui ammirare la bellezza del mondo

Davanti alla serie sui crimini americani nel carcere di Abu Ghraib, in Iraq
(Keystone)
17 settembre 2023
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Fernando Botero era un artista talmente popolare da essere facilmente frainteso. Succede quando si crea qualcosa di così immediato da far saltare passaggi e spiegazioni. Una cosa per certi versi simile – e allo stesso tempo opposta – accadde ai Beatles, che una volta diventati “più famosi di Gesù Cristo” scoprirono che “la gente trovava significati” dentro le loro canzoni a cui loro non avevano mai pensato. Quella musica arrivava così dritta a chi ascoltava che c’era una necessità di complicarla per renderle giustizia.

Senza filtro

In Botero, invece, quella connessione immediata tra opera e spettatore bastava a sé stessa, come se complicare la questione – farsi spiegare cosa c’era sotto – potesse indebolire un’esperienza già perfetta. Questa cosa non andò mai giù ai critici, che si sentivano depotenziati (e infatti Botero l’hanno odiato e poi amato e poi odiato come nemmeno Mina con il protagonista di ‘Grande Grande grande’), ma non aiutò nemmeno una grossa fetta di quel pubblico occasionale e affascinato ad andare oltre l’esperienza puramente visiva e oltre la domanda fatidica, che prima o poi arrivava, a Tokyo come a Londra: “Ma perché Botero disegna solo persone grasse?”

Botero, superstar dell’arte del XX secolo e morto lo scorso 15 settembre nel Principato di Monaco a 91 anni, non “disegnava persone grasse”, ampliava volumi, deformava e gonfiava la realtà perché lì – in quegli interstizi tra ciò che è vero e ciò che potrebbe esserlo ma non lo è – trovava bellezza. È come se Botero avesse scoperto un’angolazione nuova da cui ammirare il mondo. Lui dipingeva o scolpiva, gli occhi e la pelle di chi guardava reagivano. Epidermico e profondo allo stesso tempo, Botero provoca cortocircuiti in cui si perde la spiegazione di quel che accade in mezzo.


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Un poliziotto e una delle 23 sculture in piazza Botero a Medellín

Mauriziocostanzoshow

In Italia e in Ticino la sua popolarità è stata ulteriormente accresciuta da un altro cortocircuito, ovvero la sovrapposizione dei suoi quadri con una delle trasmissioni più popolari della tv italiana, condotta da un giornalista che sembrava un quadro di Botero uscito dalla cornice: Maurizio Costanzo. Quanto può essere arte l’opera di qualcuno che fa capolino tra le mise colorate di Bracardi, ospiti improbabili e la pubblicità di una camicia coi baffi? Da Benjamin in poi, sui i rapporti tra l’uomo e “l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” si sono spesi fiumi d’inchiostro. Quel binomio Botero-Costanzo resta un capitolo a margine, nazionalpopolare solo tra chi parla italiano, dentro a una storia che è nazionalpopolare a un oceano di distanza, dove Botero è nato, eppure globale.

Lui ripeterà fino alla nausea “non ho mai dipinto nulla di diverso dal mondo che ho conosciuto a Medellín”. Lì era nato Botero il 19 aprile 1932, in una città che aveva ancora i ritmi e i colori della campagna, ma che di lì a poco sarebbe diventata luogo di fabbriche e malaffare. Secondo di tre fratelli, a 4 anni perde il padre, un’età che si rivelerà anche una terribile coincidenza, quattro decenni più tardi, quando in un incidente d’auto – guidata da lui – perde la vita il figlio Pedro: aveva 4 anni.


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I ballerini di Botero a Medellín

La superstar e il Realismo magico

In quello stesso incidente Botero perse parte di due dita e si ritrovò con una mobilità ridotta al braccio destro. Eppure lui stesso dirà che alcune delle sue opere migliori arriveranno dopo quel momento. Questo vale anche per ‘Pedrito a Caballo’, il primo quadro che dipinse dopo la morte del figlio e anche uno dei più ipnotici. Si fa fatica a staccare lo sguardo davanti a ‘Pedrito a Caballo’: una parte della spiegazione rientra in quell’insondabile che fa parte della fortuna di Botero, in parte è il colore, un azzurro acceso, che richiama all’infanzia, al sogno, a un mondo altro. Il protagonista è il figlio – ovviamente deformato e gonfiato – su un cavallo altrettanto deformato e gonfiato. Gli occhi, come in tutte le opere di Botero sono inespressivi. Ma a terra si vedono due dettagli: a destra una casa con due persone vestite di nero, il colore del lutto, a sinistra un pupazzo identico al Pedrito a cavallo, però inerte, sul pavimento, con un altro pupazzo che lo osserva pietrificato (lo stesso Botero).

Eccoli i significati, le spiegazioni dei cortocircuiti, che però non servono. Quel quadro trasmette quel che deve trasmettere a prescindere (bellezza, dolcezza, perdita, inquietudine), senza che nessuno ti sveli alcunché. Questa resta la forza di Botero, a tal punto che di lui, in tutto il mondo, si conosce lo stile, non la faccia. Molti grandi artisti del XX secolo sono diventati icone loro stessi: Salvador Dalì, Pablo Picasso, Andy Warhol. La loro immagine, la loro faccia è stata perfino più potente delle loro opere. Con Botero è accaduto il contrario, tanto da immaginarselo pingue, con una moglie sovrappeso: niente di tutto questo. Amava le donne magre, lui.

Botero è arrivato per gradi a dipingere e scolpire nel modo che tutti conosciamo, partito da illustratore del giornale locale (‘El Colombiano’) ha avuto bisogno di un viaggio in Europa per affinarsi (ammirando Goya e Velázquez in Spagna e in Italia Mantegna, Giotto e due artisti meno noti, ma seminali per il cosiddetto Realismo magico in pittura: Antonio Donghi e Cagnaccio di San Pietro) e di una sorta di esilio messicano. A cambiargli la carriera, nel 1961, è l’acquisizione di ‘Monna Lisa all’età di dodici anni’ da parte del Moma di New York. Lavorerà negli Stati Uniti, a Parigi e soprattutto in Italia, dove sceglie come casa Pietrasanta, in Toscana, per due motivi: ci visse Michelangelo ed era vicina alle cave di marmo.


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Bogotá, anno 2012, la festa dei suoi ottant’anni

L’anti-Giacometti

Le sue sculture oggi si possono incontrare ovunque: a Singapore e in Armenia, in Cile e in Germania. Ma la piazza che ne contiene di più – ben 23 – è nella sua Medellín: si chiama, guarda un po’, Piazza Botero. Davanti c’è il Museo di Antioquia, una specie di realtà parallela in cui entri e sei avvolto da quell’ossessione per i volumi che come un virus gonfia pompelmi, bottiglie, elefanti, donne nude, tori, toreri, narcotrafficanti e Gesùcristi. Raramente in un museo ci si sente così trasportati in un altro mondo.

Spesso i musei stordiscono, stancano – diciamolo –, a volte annoiano. Lì aumenta, chissà come, anche il volume della tua curiosità. Quando esci – ed esci più tardi di quanto tu abbia previsto – se guardi in alto cè il murale di due ballerini in cima a un palazzo. Nessuna leggiadria, anzi: pesanti, inespressivi, vegliano su una città che è sinonimo di droga e violenza, ma anche culla di un’arte semplice e diretta. Due anime che non potevano non incontrarsi. Botero dipinse, tra le polemiche, ‘La morte di Pablo Escobar’. Nel 2010 trovarono 16 chili di cocaina in tre copie di sue statue, un’altra volta un attentato danneggiò una sua scultura, ‘El Pajaro’: lui ne fece una nuova, ma dietro la promessa che i resti della vecchia restassero lì a ricordo della tragedia. Perché l’opera di Botero è anche memoria, come se quei volumi esagerati e irreali fossero uno stratagemma, quasi una stregoneria per attivare ricordi in chi guarda.

Una volta, in visita a Locarno, disse – scherzando – che lui era l’anti-Giacometti, creatore di figure umane all’opposto: fragili e filiformi. Sono invece la stessa cosa: anatomia deformata, disidratata in un caso, imbottita nell’altro. Corpi alterati, sformati, snaturati a beneficio dell’occhio e dell’anima. Insomma: arte.

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