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‘I partiti? Ridotti ad agenzie per gestire le risorse statali’

È fresca di stampa la nuova raccolta di scritti, pubblicati negli ultimi 5 anni su laRegione, dello storico Andrea Ghiringhelli. Ne parliamo con l’autore

Presentazione venerdì 22 settembre, alle 18.30, nella soffitta della nostra sede (via Ghiringhelli 9, Bellinzona)
(laRegione/Ti-Press)
20 settembre 2023
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«Giovanni Sartori, l’eminente politologo che non le mandava a dire, dopo aver guardato in faccia tanti politici, aveva concluso che viviamo in regime di asinocrazia. Condivido. Sappiamo che per sua natura la democrazia non è adatta a promuovere l’eccellenza e la qualità dei governanti. Dove votano tutti, e dilaga ignoranza e incompetenza, non sempre, ma spesso, a emergere sono i peggiori». Anche Andrea Ghiringhelli è uno che non le manda a dire. Storico, già docente liceale e direttore delle Biblioteche cantonali di Bellinzona e Locarno nonché dell’Archivio di Stato, è oggi uno dei pochi in Tiicno a prendersi le proprie responsabilità di intellettuale nel dibattito pubblico. Così lo definisce il giornalista Lorenzo Erroi nella prefazione al libro appena pubblicato per le Edizioni laRegione ‘La trave nell’occhio. Alla ricerca della Politica’, che raccoglie gli scritti pubblicati da Ghiringhelli tra il 2018 e il 2023 su questo quotidiano. Premette lo stesso autore: non si tratta dell’opera di uno storico in quanto “non vi è, in nessuno di questi articoli, il tentativo di prendere le distanze dalle emozioni eccessive. Al contrario vi è l’insofferenza di un cittadino qualsiasi”.

A suo giudizio l’ignoranza dilaga anche perché ‘oggi sono i social a informare (e disinformare) e il populismo digitale è la peste dei nostri tempi’. Come neutralizzare il contagio che ha fatto dell’ignoranza un formidabile strumento del consenso?

L’ignoranza è una componente del populismo che ha larga presa perché rifiuta la complessità, propone decisioni rapide e definitive. In un momento di grave difficoltà delle democrazie liberali il populismo paga. E non è un caso che siano in tanti a guardare altrove verso l’uomo forte. La soluzione? Già il Franscini aveva intuito che l’istruzione e il cittadino bene informato sono la condizione per una democrazia viva e vitale. I tempi sono cambiati, ma siamo ancora lì perché sono pochi i bene informati che votano e sono tanti i disinformati che votano senza sapere. E allora? Coinvolgere maggiormente il cittadino nel processo decisionale. È la formula della democrazia deliberativa o dibattimentale. Se bene applicata, funziona.

‘Idioti governano ciechi’ è il titolo di una sua altra raccolta di contributi risalente al 2018, anch’essi pubblicati in precedenza su laRegione. A tal proposito dichiara: ‘Siamo ancora lì, anzi un po’ peggio’. Cosa si è ulteriormente deteriorato negli ultimi cinque anni?

Cosa è cambiato? Ma ci ricordiamo cosa si ripeteva durante la pandemia? “Mai più come prima”, si ripeteva, e il cambiamento era presentato come una necessità. Superate le paure, i buoni propositi sono stati cancellati. Questo perché la loro realizzazione richiede sacrifici, un cambiamento dello stile di vita che però non siamo disposti ad affrontare. Quindi tutto come prima, anzi peggio di prima e abbiamo ripreso a misurare il benessere sull’aumento del Pil. Per il resto, beh, basta misurare la realtà economica, sociale, politica di oggi per accorgersi che le cose vanno piuttosto male. Ci saremmo immaginati, solo pochi decenni fa, di avere dei postfascisti al potere? Ci saremmo immaginati di dover fare i conti con una rumorosa schiera di personaggi indecenti che ci governano e hanno costretto il dizionario Zanichelli ad aggiornare il bagaglio con una nuova parola che designa il governo dei peggiori, la cachistocrazia? Credo proprio di no.

È ricorrente la sua considerazione secondo cui il liberismo è la morte del liberalismo. In un passaggio afferma: ‘La legge intoccabile del neoliberismo – che prometteva lo sgocciolamento benefico della ricchezza anche sui meno agiati – ha ingannevolmente sedotto, chi più chi meno, tutti i partiti e il contraccolpo negativo sulle democrazie liberali è stato devastante’. Vale anche per quelli di sinistra? Quali sono stati gli effetti?

Confermo. Il neoliberismo è antipolitico e corporativo per definizione e non mira al bene collettivo. Ci ha imposto la regola aurea dello sgocciolamento della ricchezza dall’alto verso il basso: arricchiamo i ricchi che poi stiamo tutti bene. Poi sappiamo come è andata a finire. Le ineguaglianze fra pochi ricchi e tanti malmessi sono aumentate a dismisura anche se c’è ancora chi crede alla favola del “trickle-down”. È una delle cause della crisi della democrazia liberale che perde qualsiasi credibilità se rinuncia a combattere per un po’ più di eguaglianza e un po’ più di solidarietà. Pure la sinistra ha accettato l’economia di mercato, la globalizzazione, i benefici presunti del liberismo e ha perso di vista i lavoratori. Ha privilegiato i diritti civili e ha trascurato troppo i diritti sociali e alla lunga, per dirla con Luca Ricolfi, le idee di sinistra sono migrate a destra.

Come dimostra ogni tornata elettorale, i partiti sono in crisi e la sfiducia dei cittadini è sempre più grande. Questo, secondo lei, perché ‘evitano qualsiasi impiego di rigorosa etica pubblica e riducono la politica a pura gestione del potere’. I partiti hanno ancora senso di esistere?

I partiti dagli ultimi decenni dello scorso secolo hanno subito una costante erosione di consensi e oggi siamo all’astensionismo di una buona metà della popolazione. Le cause? Tante, ma Zygmunt Bauman riassume la faccenda con una sola parola: “sfiducia”. Ieri si votavano i partiti e le persone restavano nella penombra, poi abbiamo votato le persone e i partiti restavano nascosti. Oggi non si vota né gli uni né gli altri, ci si astiene o si opera nel volontariato e nei movimenti civili. E allora siamo alla fine dei partiti? Assolutamente no, i partiti sono necessari, indispensabili, rappresentano la “democrazia organizzata”. Diciamo che là dove vi è una democrazia senza partiti la democrazia è morta. E siamo alle dittature. I partiti sono necessari, non però questi partiti che sono diventati delle agenzie impegnate a gestire le risorse dello Stato. Dovrebbero autoriformarsi, ci provano da anni ma sono più propensi ad autoaffondarsi.

Regolarmente nei suoi scritti mette l’accento sulla contrapposizione ‘tanto cara alla destra estrema tra ‘noi’ e ‘loro’’, imputandole di aver condotto alla disumanizzazione della politica e alla normalizzazione della brutalità verso le persone migranti, dei morti in mare, dei lager, dei comportamenti xenofobi e razzisti. C’è da temere il ritorno dei fantasmi del passato?

I fantasmi del passato sono già ben presenti nei simboli, nei fatti, nei comportamenti. Le aggressioni alle democrazie liberali sono quotidiane. E ne vediamo i risultati. Constato che in certi ambienti c’è una singolare interpretazione della Dichiarazione universale dei diritti umani: l’universalità dei diritti si ferma alle frontiere. Quelli che sono fuori non sono come noi, sono “gli altri”, quelli con meno diritti. Li trattiamo non come delle persone che pensano e soffrono e hanno dei sentimenti ma come degli oggetti, dei dati statistici. La deumanizzazione alimenta l’indifferenza verso drammi spaventosi e ci consente di ignorare comportamenti inaccettabili.

In uno scritto sostiene che la giornata della Memoria sia ‘pura ipocrisia quando è rito di un giorno: si apre, si chiude, poi si va avanti come prima, addirittura peggio di prima. Se questo accade è perché il giorno della Memoria crea un errore che non abbiamo saputo o voluto evitare, la monumentalizzazione della Shoah’. Che cosa intende?

Quando parlo di monumentalizzazione della Shoah intendo dire che noi abbiamo avuto per molto tempo la convinzione che ci troviamo al cospetto di un dramma orrendo, fuori dalla storia e assolutamente irripetibile. In realtà sono stati uomini comuni i protagonisti di queste atrocità e già Hannah Arendt ce lo aveva ricordato. La banalità del male è in agguato e il dramma si può ripetere se allontaniamo dalla memoria e dalla storia il nostro passato. Oggi un numero crescente di persone nega addirittura l’esistenza della Shoah e in certi ambienti Liliana Segre è considerata una spudorata mentitrice, ed è costretta a ricorrere alla protezione dello Stato. Ciò la dice lunga sul veleno che sta corrodendo la nostra società.

Lei è convinto che anche l’indifferenza e l’irresponsabilità di tutti noi nei confronti della dignità delle persone abbia portato a questo cupo scenario, e che manchi oggi il coraggio della disobbedienza civile. Quando scatta il diritto a questa disobbedienza?

Il diritto di resistenza è implicito in tutte le Costituzioni liberali. Il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky ammette che le leggi dello Stato dipendono da chi prende in mano il potere e non sempre queste leggi vanno a braccetto con i diritti fondamentali, spesso li negano. In quest’ultimo caso, cioè quando sono violati i diritti fondamentali della persona, la disobbedienza diventa un atto di responsabilità civile. Rendiamoci conto: se noi identifichiamo lo Stato di diritto con lo Stato delle leggi materiali, quelle fatte dai parlamenti, allora noi giustifichiamo ogni tipo di regime conculcatore delle libertà. È successo con una certa frequenza. Ciò che voglio dire è che la disobbedienza diventa un dovere del cittadino responsabile qualora le leggi materiali dovessero violare i diritti costituzionali. In questi casi, le leggi ti condannano ma il diritto ti assolve.

La libertà, scrive, ‘è un fatto relazionale tra individui’ e per questo motivo quella invocata ad esempio dai movimenti no vax non può definirsi tale. Può spiegare meglio?

Diceva Isaiah Berlin che se l’uomo fosse il solo essere vivente su di un’isola il problema della libertà non si porrebbe. Il problema si pone nel momento in cui siamo confrontati con le altre persone. Il geniale Giorgio Gaber ci informa che libertà è partecipazione. Si è liberi insieme. In questo senso la libertà ha sempre una dimensione solidaristica ed è un fatto relazionale fra individui. Del resto, ce lo dice l’articolo 36 della nostra Costituzione: i diritti fondamentali sono intangibili nella loro essenza ma le restrizioni sono possibili quando lo richiede l’interesse pubblico o la protezione dei diritti altrui.

A proposito della guerra in Ucraina e della neutralità del nostro Paese, dice: ‘La Svizzera è parte integrante dell’Occidente democratico: predicare l’equidistanza fra democrazia e antidemocrazia, fra libertà e tirannia, fra società aperta e società chiusa è una bestemmia inammissibile’. L’hanno accusata di semplicismo e manicheismo, come replica?

Il discorso è complicato, ma mi limito a osservare che l’idea di neutralità è continuamente messa in discussione dal mutare dei tempi. Noto che per alcuni essere neutrali significa porsi in disparte e stare a guardare. Io credo che assicurare l’equidistanza fra aggressore e aggredito, fra democrazia e dittatura ed evitare di prendere posizione sulla violazione dei diritti umani in nome della neutralità, sia eticamente improponibile. Edgar Bonjour, grande studioso della questione, avvertiva che essere neutrali non significa star fermi bensì promuovere la solidarietà e la disponibilità attive. Questo bisogna fare.

Il primo articolo del libro si intitola ‘Lettera ai giovani sulla politica’. Di fronte al panorama descritto fin qui, crede ancora che i giovani possano risollevare le sorti della società?

Vede, uno dei paradossi della democrazia liberale è che essa si basa sul consenso degli elettori. I governanti sono eletti dagli elettori del presente e non si curano degli elettori futuri. I programmi ne risentono. Un candidato che promettesse restrizioni e sacrifici nel presente per costruire un futuro migliore non sarebbe eletto. È per questa ragione che le democrazie liberali non sono fatte per i progetti politici di medio e lungo termine. E allora? Stéphane Hessel, diplomatico di altissimo livello, ambasciatore, uno degli estensori della Carta dei diritti del 1948, europeista convinto, conosceva le debolezze della politica e raccomandava ai giovani di scendere nelle piazze e farsi sentire perché la politica non li ascolta o li ascolta poco. Un altro politico, Thomas Jefferson, padre fondatore e presidente degli Stati Uniti, si diceva convinto che ci volesse una rivoluzione ogni vent’anni per evitare che il potere conculcasse i diritti dei cittadini. E uno dei più grandi pensatori americani della nostra epoca, Michael Walzer, precisa che le continue lotte sono il prezzo della democrazia liberale. Tre personalità che cantano la stessa musica a favore dei giovani.

Presentazione

Il libro verrà presentato venerdì 22 settembre, alle 18.30, presso la soffitta del nostro giornale (via Ghiringhelli 9)

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