l'approfondimento

Bisturi ticinese al fronte nello Yemen

La guerra civile ha annullato il sistema sanitario. Il viaggio del chirurgo Raffaele Rosso negli ospedali di Medici senza frontiere

Interventi in condizioni estreme
3 febbraio 2020
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Check point ovunque spesso presieduti da ragazzini col Kalashnikov, feriti da armi da fuoco in sala operatoria da lasciare quando scatta il coprifuoco. Interminabili sermoni pomeridiani del muezzin che risuonano in tutta la città e pazienti donne col niquab non certo facili da visitare. Lontano da casa, in un Paese in guerra, non è facile fare il medico. Eppure il chirurgo ticinese Raffaele Rosso, in missione nello Yemen (dal 20 novembre al 27 dicembre), per Natale ha avuto un bel regalo.

Abbiamo ridato il sorriso ad una bambina di 9 anni che si era fratturata una gamba cadendo da un muro. «I vasi erano lacerati e interrotti ma siamo riusciti a salvarle la gamba, potrà tornare a correre», dice il medico. Una bella soddisfazione in un oceano di sofferenza di un Paese dilaniato da una guerra civile in corso da 4 anni, che ha azzerato il sistema sanitario, seminando morte e distruzione. Dal reparto di chirurgia dell’Ospedale Civico di Lugano – dove è stato primario fino al 2017 – al reparto di chirurgia d’urgenza dell’ospedale di ‘Medici senza frontiere’ nella regione centrale del Paese dove l’emergenza è quotidiana. Molti medici sono andati via perché senza stipendio da anni, pochi ospedali funzionano, difficile permettersi cibo, carburante, medicine. Scuole, terreni agricoli, vie di accesso e condutture d’acqua sono stati bombardati facendo riapparire temibili epidemie di colera, difterite.

Senza antibiotici per colpa dei combattenti

In questa catastrofe silenziosa e dimenticata, la vita è dura anche per chi porta aiuto. «Siamo rimasti senza morfina e antibiotici perché le scorte venivano bloccate in parte dai combattenti, che intralciano gli aiuti, ma soprattutto per l’embargo imposto dai paesi della coalizione araba», spiega il dottor Raffaele Rosso. Malgrado le difficoltà, lo Yemen gli è rimasto nel cuore.

«Sono molto riconoscenti, perché hai lasciato la Svizzera per aiutarli. Hanno sorrisi stupendi anche se la disperazione è palpabile, la gente vive sospesa, senza poter ipotizzare un futuro. In questo Paese c’era un livello d’istruzione buono anche per i medici. Ora hanno fatto un salto indietro di 70 anni. I bambini vanno a scuola qualche ora la mattina grazie a docenti volontari, poi li vedi in strada, molti sono costretti a lavorare, ma non essendo istruiti si fanno male. Ne ho curati per ustioni in cucina con l’acqua bollente o per bombole esplose. Una sofferenza che si aggiunge al dolore quotidiano, che gli leggi negli occhi. Ho visto tanti morti nella mia carriera ma quando sono così giovani, è tutta un’altra cosa», ci racconta il medico. È rientrato da qualche settimana a Lugano, ma il legame con chi è rimasto laggiù rimane forte.

Le piantagioni di Khat e le donne col niquab

Di regola una cinquantina di interventi maggiori a settimana soprattutto per ferite da arma da fuoco, appendiciti, amputazioni di arti, ascessi... In sala operatoria c’erano altri tre colleghi yemeniti. «Ho lavorato molto bene con loro, sono ottimi professionisti. Siamo sempre in contatto. Vorrei far venire in Ticino per uno stage in chirurgia vascolare un collega, un chirurgo yemenita, con cui ho operato, così potrà portare nuove competenze nel suo Paese. Ci stiamo muovendo per organizzare tutto», spiega il prof. Rosso. ‘Medici senza frontiere’ è un’organizzazione non governativa con 45mila impiegati, 462 progetti in 73 Paesi, dove sono in corso guerre o conflitti armati interni. Nello Yemen è attiva in 12 ospedali e centri sanitari.

«Sapevo che questa missione era rischiosa ma avevo l’appoggio della mia famiglia. La chirurgia è azione, adrenalina, ma anche soddisfazione di aiutare chi soffre. C’è sacrificio, perché ti devi adattare, ma c’è anche la bellezza di lavorare con professionisti che condividono i tuoi obiettivi».

Attraversando il Paese, il medico ha visto la miseria generata da una guerra che sta affamando la gente: «Ho visto paesini dove la nota dominante erano le montagne di immondizia, anche vicino ai mercati, dove la plastica colorata si confondeva con la frutta; tanti bambini vestiti di stracci e buchi enormi nelle strade. Innumerevoli check point spesso presieduti da ragazzini con il Kalashnikov e una palla di Khat (Qat) in bocca», spiega. Una pianta di cui tutti si riempiono la bocca, masticandone le foglie, che ha un effetto simile all’anfetamina, non fa sentire fatica, sonno e appetito, inducendo iperattività. «È legale e viene coltivata nel Paese», precisa.

È un Paese mussulmano e in ospedale lavorano poche donne. «Sono velate, spesso discriminate anche se sono molto brave. Non è solo un aspetto culturale, l’impressione è che la donna non abbia ancora una sua libertà. La guerra ha poi inasprito l’integralismo e accentuato le differenze tra fazioni appartenenti a diversi riti islamici».

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