Luganese

Quando la parola si fa speranza

Nel ‘cuore’ del progetto di apprendimento precoce della lingua, curato dalla Croce Rossa sezione del Sottoceneri, a favore di migranti con permesso N

Infografica LaRegione
17 ottobre 2019
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Si fa in fretta a sentirsi ‘stranieri’, anche quando si vive nel Paese in cui si è nati. Figuriamoci se in quel Paese si è arrivati dopo un viaggio di migliaia di chilometri e una richiesta d’asilo. Sfiancati nel corpo ma soprattutto nello spirito, con il desiderio che venga riconosciuto il problema che li spinge a lasciare la loro terra e a iniziare una vita ‘regolare’. Una ricerca che passa, soprattutto, dalla lingua. Cristina Della Santa è insegnante di italiano per migranti. Conosce il dolore e le difficoltà di quanti approdano in Svizzera per ricostruirsi una vita, fatta piuttosto che di ricchezza di speranze. Dallo scorso anno un progetto di apprendimento precoce dell’idioma, curato dalla Croce Rossa sezione del Sottoceneri e sostenuto dalla Segreteria di Stato della migrazione, per il quadriennio 2018-2021, offre a stranieri, adulti, la possibilità di imparare l’italiano.

Ma cosa spinge una classe multietnica a superare il ‘muro’ della comunicazione? Come spiegare il prima e il dopo, quali le conquiste, quali le maggiori problematiche? Ci si può sentire meno ‘stranieri’ se si è capaci di parlare con il vicino di casa o chiedere un’informazione alla fermata del bus?

Eric ha lavorato per l’Ambasciata del Burundi a Ginevra. Nel 2016 è stato trasferito con la sua famiglia, moglie e un figlio piccolo, in Ticino (dove poi nel 2018 è nata una bambina): «La politica del mio Paese mi impone ora di richiedere l’asilo... Quando sono arrivato qui non conoscevo una parola di italiano e quando non sai parlare la lingua del posto non è facile vivere bene con gli altri. La cosa più importante è di poter parlare con il tuo vicino. Quando parli la stessa lingua è più facile trovare un amico».

‘L’integrazione non dovrebbe conformare tutti a tutti, ma preservarne le diversità’

Senza la lingua c’è, dunque, un problema di integrazione... «Vorrei evitare di utilizzare la parola integrazione – ci frena l’insegnante –, è una parola che, a mio avviso, rimanda all’omologazione, come se gli stranieri dovessero diventare il più possibile simile a ‘noi’. Ma ciò non è interessante per nessuno... Come a dire: devi essere il meno diverso possibile. Invece la differenza può essere molto arricchente. Preferirei parlare di appartenenza attiva e responsabile. Purtroppo, ancora oggi, vi è poca attenzione alla lingua di quanti arrivano nel nostro Paese – evidenzia la nostra interlocutrice – vi sono, per esempio, cittadini di ex colonie francesi inviati in Svizzera interna anziché nella Svizzera romanda; persone che hanno un parente già ben inserito nella nostra società e anziché ricongiungerli impongono loro un altro cantone». Eric ci guarda mentre il vivace Joshua, che frequenta l’asilo di Canobbio, addenta un cioccolatino: «I miei figli parlano solo l’italiano. Il grande frequenta la scuola qui a Lugano così, per facilitarlo, a casa siamo costretti a parlare con lui l’italiano. Devo parlare italiano altrimenti non mi capisce! Spesso corregge me e mia moglie. E questo è anche un problema per noi, non potendolo aiutare nei compiti...».

E il fatto che un figlio possa diventa ‘superiore’ al genitore può essere anche pericoloso nella relazioni intrafamiliari: «È necessario riuscire a gestirlo bene, non è sempre facile, c’è il rischio che il figlio ti sfugga di mano» puntualizza Cristina Della Santa. A ricordarci gli aspetti positivi è la moglie, Aimée: «Ora posso andare da sola dal pediatra o a fare la spesa, e questo mi fa molto felice, sono capace di spiegarmi, parlare, capire cosa mi si dice». Per le piccole ma anche per le grandi cose, «perché per un lavoro è fondamentale conoscere la lingua – non manca di aggiungere la maestra –. Spesso però, e qui vi è un’altra mancanza, l’insegnamento non viene offerto fino al livello più alto, dovendosi spesso accontentare di un A1, A2».

Accanto incontriamo Bedrie, 39 anni, albanese, in ottobre sarà da un anno in Ticino. Felice del suo stage (non pagato) al rifugio degli animali di Melano ci racconta le sue prime conoscenze di italiano: «In Italia o in Svizzera gli albanesi arrivano già con un’infarinatura... Ho sempre guardato la televisione italiana, molti film fin da quando ero piccola, quelli di Bud Spencer! La lingua è importante, senza non hai possibilità di trovare lavoro. Se la conosci sei meno chiusa in te stessa, hai più coraggio di muoverti verso... fuori. Ti puoi dire ‘posso farcela!’. Mi piace uscire spesso dal centro d’accoglienza della Croce Rossa di Cadro, confrontarmi con chi parla bene l’italiano, ascoltarli per imparare».

Vafa è una giornalista, 33 anni, arriva dall’Azerbaigian: «Abito anch’io al Centro Ulivo di Cadro da circa un anno con la mia famiglia, marito e due figli. Perché sono venuta in Svizzera? Le rispondo con una parola: dittatura! Capisce tutto... Avendo un legame forte con la mia famiglia di origine sono tornata nel mio Paese per poi decidere di ripartire, così adesso ho uno statuto un po’ precario, le difficoltà si moltiplicano, laggiù mio marito è stato anche incarcerato. Non conoscevo l’italiano, adesso lo parlo ancora poco, ho da imparare molto, ma almeno mi arrangio e sono in grado di uscire da sola. Non provo più vergogna nel non capire quello che mi dicono. Quando mio figlio, che lo parla meglio di me, mi chiede qualcosa e io non posso rispondere provo molta frustrazione. Vorrei scrivere un articolo sulla situazione del mio Paese, ma se ora con la lingua italiana ho qualche difficoltà spero comunque presto di poterlo realizzare».

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