Bellinzonese

‘Solo con una spinta poteva atterrare a 3,5 metri dal palazzo’

Il procuratore pubblico Moreno Capella chiede 18 anni di carcere per il 40enne eritreo accusato di avere assassinato la moglie

14 settembre 2021
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Come in occasione del processo in primo grado, il procuratore pubblico Moreno Capella ha chiesto 18 anni di carcere per il 40enne eritreo accusato di aver ucciso la moglie spingendola giù dal balcone del quinto piano di una palazzina di via San Gottardo a Bellinzona, la sera del 3 luglio 2017. Dopo essere stato condannato per il reato di assassinio a una pena detentiva di 16 anni dalla Corte delle Assise criminali lo scorso 23 dicembre, l’uomo – da sempre professatosi innocente sostenendo che la moglie 24enne si sia suicidata e che lui abbia semmai tentato di salvarla – ha impugnato la sentenza ed è quindi tornato in aula questa mattina di fronte alla Corte di appello e di revisione penale di Locarno presieduta dalla giudice Giovanna Roggero-Will.

«Un caso difficile e complesso – ha esordito il pp Capella durante la sua requisitoria, sottolineando la natura fortemente indiziaria del processo –. Ma a seguito del lavoro svolto dagli specialisti, possiamo giungere a una situazione chiara e lampante». Nel corso di un intervento decisamente più breve rispetto alle sei ore dello scorso dicembre, Capella si è in particolare soffermato sulle conclusioni della perizia affidata all’Istituto di medicina legale dell’Università di Berna. Una lunga serie di accertamenti, dal punto di vista tecnico-scientifico (compresi test con dei manichini), ritenuti un elemento fondamentale a sostegno della tesi accusatoria e che secondo il pp minano l’attendibilità della versione dell’imputato. «I periti concludono che la vittima non hai raggiunto la velocità necessaria (almeno 6,8 km/h, ndr) per coprire la distanza orizzontale che separa il parapetto dalla posizione in cui è stato ritrovato il corpo (3,56 metri, ndr)». In sostanza, ha aggiunto il pubblico magistrato, se le cose fossero andate come racconta l’imputato, il corpo della donna avrebbe impattato al suolo a soli 1,3 metri di distanza dal muro del palazzo. «Un elemento che certamente ci permette di dire che la sua ipotesi è impossibile nella sua realizzazione». Un altro elemento, ha continuato Capella, è la dinamica del corpo in volo: «Se la posizione di partenza della donna fosse quella descritta dall’imputato (a cavalcioni sul parapetto, ndr), per atterrare al suolo con le mani protese in avanti la vittima avrebbe dovuto compiere volontariamente durante la caduta una sequenza di movimenti coordinati, come una tuffatrice». Il pp ha poi evidenziato altri indizi che rendono «la versione dell’imputato molto poco probabile se non impossibile», come le «importanti linee escoriate sulla gamba e sul braccio della vittima, compatibili con la posizione a cavalcioni e con il tentativo di aggrapparsi al parapetto per opporsi a un evento a lei avverso», le testimonianze dei vicini circa la discussione animata prima della caduta, i comportamenti minacciosi dell’imputato in soggiorno (compresa la minaccia con un coltello), il fatto che quest’ultimo abbia chiuso a chiave delle porte (compresa quella della stanza in cui si trovavano i due figli), la rottura dell’osso ioide della donna «non provocata dalla caduta ma dal tentativo di strangolamento dell’imputato» e il comportamento dell’uomo appena dopo la caduta. «Ha atteso almeno cinque minuti prima di scendere sul piazzale. Cinque minuti nei quali risponde al telefono, nasconde il coltello e non chiama i soccorsi».

Il pp è poi arrivato al movente: «Il motivo per cui ha agito, asserito durante l’inchiesta, ribadito in primo grado e anche oggi è la presunta infedeltà della moglie». La gelosia dell’uomo era alimentata dal fatto che la donna avesse contratto l’epatite B a causa di un rapporto sessuale (in realtà la malattia era cronica e aveva origini remote) e che potesse essere incinta nonostante le rassicurazioni della dottoressa della moglie.

L’ipotesi del suicidio sostenuta dalla difesa, per Capella non trova alcun riscontro. «Nessun testimone ha raccontato di una vittima che soffriva di depressione o in preda di propositi suicidali. C’è da chiedersi perché dopo la lite del 29 maggio l’ha lasciata da sola in casa se aveva paura che si suicidasse».

La sera del 3 luglio 2017, ha concluso il pp, «l’imputato ha agito con un movente particolarmente perverso, futile e infondato, afferrando la moglie, sollevandola e spingendola giù dal balcone».

Nel corso del pomeriggio prenderanno la parola le avvocate Demetra Giovanettina (rappresentante dell’accusa privata) e Manuela Fertile, patrocinatrice dell’imputato.

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