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‘Non si vive di ricordi: sono preziosi, ma la vita continua’

A quarant’anni dal titolo olimpico nella libera di Sarajevo, Michela Figini si racconta fra passato e presente. ‘Le vere medaglie d’oro sono i miei figli’

(Keystone)
16 febbraio 2024
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Il centro di Sarajevo è circondato da una coltre incantata, quasi fiabesca, ma l’attenzione è focalizzata su una casetta di legno posta sul monte Jahorina. Una figura striata di rosa e di nero, protetta (solo) da un casco simile a quello del chilometro lanciato, sistema i bastoncini fuori dal cancelletto di partenza e si lancia a capofitto sul pendio. Il pettorale è il numero cinque di Michela Figini, subito messasi in posizione di ricerca di velocità. Nel tratto centrale rimane composta e aderente al terreno, pennellando tutte le curve fino a superare lo striscione del traguardo in 1’13”35 e distanziare così di oltre un secondo l’austriaca Elisabeth Kirchler. Le concorrenti scendono in successione, nessuna riesce però a battere quel crono. Michi, com’è soprannominata, rimane tranquilla e disinvolta. Nella testa inizia a balenare qualche pensiero, frammisto a speranza e consapevolezza. È il momento della rivale più accreditata, la compagna di squadra Maria Walliser. La natia di Mosnang è in palla, eppure il suo margine si assottiglia sempre di più sino a posizionarsi alle spalle della ticinese di soli cinque piccoli centesimi. A pochi mesi dal suo diciottesimo compleanno, la sciatrice di Prato Leventina si laurea campionessa olimpica in discesa.

Da quel giovedì 16 febbraio 1984 sono passati esattamente quarant’anni. Michela ricorda però ancora ogni particolare. La ticinese ha staccato il biglietto solo qualche settimana prima della rassegna a cinque cerchi, imponendosi nella libera di Megève. «Già imbarcarmi sull’aereo insieme a tutta la spedizione rossocrociata è stato qualcosa di speciale, conquistare il titolo una sorpresa», che solo trascorsi molti anni è riuscita a comprendere. Il giorno precedente la corsa era stata interrotta a causa delle pessime condizioni meteorologiche scese appena nove concorrenti, fra cui Figini (in quel momento in testa). «Non mi aspettavo sicuramente di rincasare con una medaglia, ma le sensazioni erano buone: essere davanti alla concorrenza nella discesa sprint ha accresciuto la mia fiducia. Se tutto avesse funzionato alla perfezione, magari avrei ottenuto un risultato di spessore». E così accadde. La premiazione, e le note del salmo svizzero... A Prato Leventina può impazzare la festa. «È stata una grandissima emozione! Tutto è successo molto in fretta e, dunque, non mi rendevo conto di quello che avevo compiuto. Ora sono dei ricordi splendidi». Dei ricordi che aveva paura sfumassero mettendo di nuovo piede nella capitale bosniaca, divenuta in seguito un presidio militare a causa del conflitto scoppiato nei Balcani. «Sì, in effetti, sono tornata solo pochi anni or sono accompagnata dalla ‘collega’ Dominique Gisin. Mi è piaciuto condividere questo momento con lei, una persona che stimo molto, in un luogo che ha lanciato in modo differente le nostre carriere. È stato arricchente, mi ha permesso di soppesare quanto successo. L’impresa dell’oro è stata una parentesi della mia carriera sportiva, ma quanto capitato alla popolazione di Sarajevo è devastante; vivendo nella bambagia è stato importante ritornare ai piedi del monte Jahorina e chiudere in un qualche modo il cerchio».

Dalla familiare Prato Leventina alle luci della ribalta, in un baleno Michela è stata catapultata in una nuova dimensione. «Ero completamente disorientata: rivedendo le immagini di quarant’anni fa penso che ero ancora una bambina». Questa mancanza di esperienza è tuttavia stata colmata dalla naturalezza esibita sulla neve. La sua caratteristica principale era infatti «di riuscire a leggere tutte le ondulazioni del terreno e di essere molto forte nelle gambe. E, questo, mi permetteva di tenere delle linee più strette». Dallo Sci club Rodi alle piste di tutto il mondo. «Ho bruciato un po’ le tappe, ma è stato comunque un processo graduale: pian piano inizi a conoscere le stazioni più grandi fino a calcare le nevi della Coppa del mondo. Il mio obiettivo era comunque di scendere il più velocemente possibile, senza preoccuparmi troppo di ciò che mi circondava». Il sostegno della famiglia non è tuttavia mai venuto a mancare. «Non ero automunita, perciò mio papà mi accompagnava in stazione con sei paia di sci nella sacca. A volte capitava di rimanere bloccati ad Arth Goldau in quanto non c’erano più treni, e così superava il Gottardo e mi veniva a prendere. Questo bagaglio di esperienza mi ha permesso di affrontare di petto ogni situazione complicata. Di crescere in fretta, insomma». La famiglia è stata anche una zona in cui rifugiarsi. «Non ho mai voluto mamma e papà direttamente sulle piste. Ho separato la componente emotiva da quella sportiva. È stato un toccasana perché a casa si parlava di tutt’altro, era un momento di riposo e recupero totale».

Schiva, determinata e tenace. Le affilate lamine di Michela hanno lasciato un solco indelebile nella storia dello sci alpino. Nel suo palmarès spiccano infatti tre medaglie iridate (di cui una d’oro a Bormio), due Coppe del mondo generali e ben sei di specialità (quattro in discesa, una in gigante e una in superG), nonché 46 podi, di cui 26 vittorie. È stata anche portabandiera ai Giochi olimpici di Calgary, in cui ha conquistato l’argento in gigante. «La ricetta? Credo l’essere ambiziosa, il persistere senza mai soffermarmi troppo sul passato. E, dunque, anche su quelle medaglie o quei titoli già messi in bacheca. Una sconfitta non è una catastrofe, bisogna saper voltare pagina in fretta e concentrarsi sul giorno seguente». Il classico day by day. Non era però scontato essendo in una squadra «fortissima. Questa rivalità interna è stata una motivazione in più in quanto essere la più brava in allenamento significava essere performanti anche sui grandi palcoscenici. A Crans-Montana, ad esempio, ho conquistato l’argento e mi è sembrata una sconfitta. Quando sei abituato a vincere, l’asticella è sempre posta in alto. Quella giornata semplicemente non ero stata così veloce come Maria e bisogna saperlo riconoscere. Una medaglia è comunque sempre una medaglia». Un po’ come un fulmine a ciel sereno nel 1990, neppure 24enne, Michela si ritira dalle competizioni. «Ho sempre amato sciare, ho smesso perché alla fine non mi divertivo più: troppe cose non andavano come volevo. Quando viene a mancare il piacere è meglio smettere, altrimenti diventa una fatica in più». Una scelta che non ha mai rimpianto. «Non ho mai compiuto dei colpi di testa. Era una scelta ponderata, semplicemente era il mio capolinea; in una squadra non dev’esserci malumore, tutto deve funzionare alla perfezione senza interferenze». E, per questo, capisce la decisione presa da Lucas Braathen a inizio stagione. «Mi riconosco in lui, ma adorerò sempre lo sci. Quando vedo Lara (Gut-Behrami, ndr) o Marco (Odermatt, ndr) è qualcosa di fantastico, ripercorro la mia carriera e l’evoluzione di questa magnifica disciplina. Le strutture erano completamente differenti».

Chiuso il capitolo agonistico, la vita di Michela è continuata lontana dai riflettori. E, da un anno e mezzo, ha intrapreso una nuova esperienza (sempre in ambito sportivo) a Biasca. The padel lab nata dalla passione del socio in affari Marlon D’Amico, istruttore e vulcano di idee. L’obiettivo è di promuovere la disciplina in un clima familiare «in cui sfidarsi, ma anche fare due chiacchiere. L’intenzione è di far crescere il movimento giovanile, cercando nel limite del possibile di offrire loro il nostro sostegno sia a livello tecnico che finanziario». Il centro è inoltre munito di altri spunti di interesse e ricreativi come la piscina, il tennis, la zona wellness e uno snack bar. Un progetto capace di ridare lustro alla zona del Vallone. Michela ha sempre manifestato la volontà di realizzare un museo sportivo nelle Tre Valli e, questo, in un futuro prossimo aprirà verosimilmente i battenti. «La speranza è di riuscire a esporre gratuitamente i cimeli di atlete e atleti capaci di esportare il marchio Ticino fuori dai confini nazionali». Un’idea semplice ma carina, conclude Figini, ancora tutta da concretizzare. Il classico tuffo nel passato.

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