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‘Sciur padrun’ di ieri e di oggi

Dalle mondine in poi i tempi non sono cambiati. Non quando si parla di lavoro e salari degni come capita nel Mendrisiotto

(fonte folkmusicworld.com)
12 ottobre 2021
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‘Sciur padrun da li beli braghi bianchi, fora li palanchi, fora li palanchi’. Da qualche settimana mi è tornato alla mente un vecchio canto popolare. L’autore, anonimo, lo scrisse fra il XIX e il XX secolo secondo quanto riferiscono le cronache. A portarlo sino a noi sono state le voci delle mondine del Novarese o del Vercellese, le schiene curve, le mani affondate nell’acqua. Già allora quelle lavoratrici sapevano bene come andava il mondo. Che il salario lo si suda due volte: quando lo si guadagna e quando si deve ricordare al padrone dalle belle braghe (i calzoni) bianche di sborsare il dovuto. Certo di acqua, dalle risaie a oggi, ne è passata sotto i ponti delle lotte operaie, eppure certe cose sembrano proprio non cambiare mai.

Mi è venuto di pensarlo giusto sabato, a Mendrisio, alla manifestazione organizzata dai sindacati Ocst e Unia per rivendicare il diritto a un lavoro e a un salario degni. A scuotere i circa 400 presenti (non certo pochi, checché se ne dica, per la realtà ticinese) sono state soprattutto le testimonianze dei lavoratori (che c’erano, eccome, sul piazzale). Di chi nelle fabbriche ticinesi ci campa, anche se arriva da oltreconfine. Le storie di lavoratrici messe alla porta sulla soglia della pensione dopo una vita passata tra “turni sfiancanti e giornate a ciclo continuo”. Il racconto di lavoratori che “sognano” un mestiere capace di dare loro “una paga degna ma soprattutto tempo per vivere”. Parole che non hanno nulla di retorico, semmai sono pregne della nostra quotidianità. Infatti, il loro ‘sciur padrun’ non avrà le braghe bianche, ma fatica ancora a riconoscere in busta paga persino il minimo del salario (i fatidici 19 franchi l’ora) fissato da una legge cantonale, per quante lacune (certo da colmare) questa possa avere.

È il caso, allora, di scendere in piazza? Sì, lo è, oggi più di ieri. E non solo perché lo dicono i sindacati, uniti – e non capita di frequente – per una giusta causa. Basta essere sfiorati dal pensiero che certi diritti non sono poi così acquisiti come pensavamo da tempo, per sentire la responsabilità sociale e civile di mobilitarsi. C’è chi ha già obiettato che, in fondo, la questione – il contratto sottoscritto da tre industrie manifatturiere del Mendrisiotto con Ticino Manufacturing e TiSin – riguarda poi solo dei frontalieri (anche perché trovate un ticinese capace di sbarcare il lunario con quegli stipendi); come dire che ‘questi’ sindacati difendono gli interessi del frontalierato e non certo dei contribuenti di casa nostra. Chi cede a questa tentazione dimentica, però, che quando salta il diritto al lavoro e a un salario degno per uno, salta per tutti (poco importa da quale lato di quale frontiera si viva). Sarà un caso, ma la manifestazione di sabato – volendo leggerla politicamente – era più trasversale di quanto si possa pensare. E non erano casuali nemmeno le presenze di sindacaliste che operano nel mondo bancario e dei trasporti: il nodo salariale non riguarda solo l’industria. Scoppiato il bubbone, adesso (è indubbio) sindacati, politici e Stato avranno un bel daffare a metterci la proverbiale pezza e a fare i ‘controllori’, rimediando a qualche errore del passato. Una cosa è certa, ora più che mai bisognerà restare di vedetta e riflettere su quale economia si vuole per questo cantone. Ciò che conta è non fare di tutta un’erba un... fascio (quanto a sindacati, salari e imprenditoria). Perché c’è piazza (quella di Mendrisio, per intenderci), e piazza (tipo quelle no vax romane con infiltrazioni neofasciste). Avvertenze per l’uso: evitare commistioni.

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