Estero

Al Regno Unito il primato di morti da coronavirus in Europa

Londra ammette il fallimento dell'inizale obiettivo dell'immunità di gregge

5 maggio 2020
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Il Regno Unito è diventato il primo Paese in Europa per numero di morti da coronavirus: oltre trentamila. Persino più dell'Italia, che è stata a lungo l'epicentro della pandemia nel continente. Un bilancio imbarazzante per il governo conservatore - a dispetto dei segnali finalmente positivi di un picco in apparenza superato e di una curva di contagi e ricoveri in discesa - destinato a riproporre polemiche e interrogativi sulla risposta iniziale alla minaccia malgrado il tentativo di Boris johnson di presentare come "un successo" l'aver evitato il temuto sovraffollamento degli ospedali.

A certificare un dato ormai atteso è stato l'ultimo aggiornamento capillare dell'Ons, l'istituto di statistica nazionale, reso noto con cadenza settimanale. Aggiornamento che, con l'aggiunta dei decessi classificati come casi sospetti (casi che altri Paesi europei non inseriscono), porta ad almeno 29.710 i morti censiti in Inghilterra e Galles fra ospedali, case di riposo, abitazioni private e ricoveri vari alla data del 2 maggio; 32.375, includendo Scozia e Ulster. Ma il dato si conferma anche limitandosi solo alle cause di morte certe registrate fino a oggi e illustrate nella conferenza stampa quotidiana di Downing Street tenuta stasera dal ministro degli Esteri, Dominic Raab: per un totale di 29.427 (693 più di ieri, col recupero di alcuni dati arretrati del weekend) comunque superiore, per la prima volta dall'inizio dell'epidemia, ai 29.315 dichiarati adesso dall'Italia. Il Regno sale verso i 200mila contagi, con altri 86.000 test realizzati, fa sapere Raab, numero due di Johnson chiamato a sostituirlo nei giorni drammatici trascorsi dal premier in ospedale e di nuovo nel momento statisticamente più impietoso.

Un momento che Downing Street prova a sfumare, aiutato da una parte dei media nazionali, ricordando "la difficoltà di fare paragoni" a causa dei diversi sistemi di calcolo fra Paese e Paese. Ma senza poter cancellare il peso di quei trentamila morti e oltre, né consolarsi troppo con il tasso ancor peggiore in rapporto alla popolazione fatto segnare tuttora dal Belgio o dalla Spagna. Un peso che costringe a rifare i conti con le esitazioni iniziali imputate all'esecutivo e ai suoi consulenti, un mese e mezzo fa, nell'introduzione di misure restrittive radicali dei contatti sociali. Fino alla decisione del lockdown generale scattata non prima del 23 marzo.

Scelta su cui oggi stesso la commissione parlamentare Sanità ha incalzato il professor sir Patrick Vallance, consigliere scientifico principe del primo ministro. Inducendolo a svelare le divergenze emerse in quelle settimane in seno allo stesso Sage, il sinedrio di scienziati ed esperti chiamato ad assistere l'esecutivo nell'emergenza, pur sullo sfondo di una pubblicazione per ora solo parziale delle sue deliberazioni. E a chiedere "scusa, se non fossi stato chiaro", sui suoi controversi riferimenti di allora all'ipotetico obiettivo di "un'immunità di gregge", vista da molti come richiamo a un'illusoria strategia alternativa.

Sia come sia, a Londra non resta a questo punto che diventare una delle capitali europee più caute sulla Fase 2. Un passaggio che è "all'esame del governo", ha ribadito Raab, ma non potrà non esser graduale (dallo sport alla scuola all'economia), tenuto conto dell'altezza del picco appena superato dal Paese e del rischio concreto - denunciato costantemente in questi giorni - di "un secondo picco" potenzialmente ancora più micidiale. Johnson, convertito a maggior ragione alla prudenza dopo l'odissea personale sfociata in tre notti di terapia intensiva, per ora si riserva di presentare in effetti domenica un piano sulle tappe future di una riapertura al rallentatore: e non è chiaro a partire da quando, né con quali limiti esatti

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