Economia

Fenomenologia delle Grandi Dimissioni

La sociologa Supsi Francesca Coin esplora i sintomi – spesso sottovalutati – di un mondo del lavoro minacciato da impieghi precari, sottopagati, stupidi

Che fatica...
(Depositphotos)
20 giugno 2023
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“E a quel punto dici: ma sai che c’è? Perso per perso, andassero affanculo. Ci avevano detto che ogni persona può diventare ciò che vuole, se si impegna abbastanza. Ma quella storia non si è mai realizzata. Ci sei solo tu che sputi sangue e loro che con i soldi che a te non danno comprano un’ottima bottiglia di champagne. E allora dici, vabbe’, ma è veramente tutta una presa in giro?”.

Precariato, mobbing, orari estenuanti, un ambiente lavorativo dispotico e orwelliano: sono molti i motivi che spingono sempre più persone “a quel punto”: quello buono per mollare tutto anche se non si hanno alternative in mano, insomma ‘Le grandi dimissioni’, titolo dell’ultimo lavoro di Francesca Coin appena pubblicato e già ristampato da Einaudi. La sociologa Supsi ha raccolto decine di testimonianze come quella che leggete qui sopra, dando corpo e voce a un fenomeno che ogni anno interessa milioni di lavoratori in America, in Europa, perfino in Cina. Poi ha unito i puntini.

Proviamo a tracciare l’identikit di chi si dimette più spesso: sono giovani, hanno soldi da parte e famiglie agiate alle spalle, magari un impiego alternativo già all’orizzonte? Oppure si tratta di un gesto di disperazione, il canto del cigno di tanti Fantozzi 2.0?

Né l’una, né l’altra cosa. Se stiamo ai dati del 2021 per l’Italia, ad esempio, possiamo dire che una persona su due, quando lascia, non ha in mano un’alternativa. Sappiamo anche che i settori da cui si va via, un po’ in tutti i Paesi occidentali, sono spesso i più poveri: grande distribuzione, ristorazione, logistica e, in molti casi, la sanità. Però non lo definirei un atto di disperazione: l’esasperazione c’è, ma certi gesti rappresentano in fondo un’affermazione di sé da parte di chi cerca di più.

Le grandi dimissioni sono anche un fenomeno di lotta di classe, o quantomeno di resistenza passiva? E se è così, cosa ci dicono di questa “dialettica servo-padrone” in cui né il datore di lavoro, né i sindacati paiono dimostrare potere e autorevolezza?

È anzitutto un doppio fallimento: quello delle diverse organizzazioni del lavoro – autonome e sindacali, messe sempre più in discussione negli ultimi trenta o quarant’anni – e quello del tentativo da parte delle aziende di disciplinare il lavoro. Più che una soluzione, dunque, le grandi dimissioni sono un sintomo: il sintomo del fallimento di un modello produttivo, della fine di un’epoca iniziata un secolo fa con la catena di montaggio. In quest’epoca la lealtà del lavoratore era inizialmente remunerata in via diretta, indiretta e differita: salario, pensione, carriera; lo smantellamento di queste forme di retribuzione ha privato di senso la lealtà all’azienda. Le dimissioni, lungi dall’essere solo il risultato di momenti passeggeri quali la pandemia, rappresentano a mio avviso l’esito di questa traiettoria di lungo corso.

Il suo collega economista Christian Marazzi ha già osservato l’esaustione del modello efficientista, che il politologo Marco Revelli definisce a sua volta “un sistema che cerca di strizzare acqua da un asciugamano già asciutto”. Però è da mezzo secolo che si preconizza la fine del capitalismo a ogni crisi. Stavolta cosa cambia?

Mezzo secolo fa, le forme di deregolamentazione del lavoro che ora vediamo spinte all’estremo erano ancora alla fase iniziale. La stagflazione degli anni Settanta mise in crisi il modello della grande fabbrica, agevolando quella precarizzazione e flessibilizzazione con le quali si promettevano più lavoro e benessere. Solo negli ultimi anni, però, i nodi di quell’assalto ai diritti sono venuti al pettine, con la precarizzazione diffusa, il lavoro atipico e a chiamata, il ritorno del cottimo, la gig economy (economia dei lavoretti, ndr), il tempo libero trasformato in reperibilità, il controllo costante e così via. Intanto le contropartite economiche si sono fatte sempre meno soddisfacenti e il contesto internazionale dopo la crisi del 2008 – aggravato poi dalla pandemia e da altre incertezze – ha cessato di formulare promesse credibili per il futuro. Ma quando si smette di credere che i propri sacrifici porteranno a qualcosa di meglio, viene meno la motivazione ad accettarli.

A tal proposito scrive: “Lealtà è una parola che la mia generazione non conosce, inscritta com’è nella fase espansiva del capitalismo industriale”. Verrebbe dunque meno l’opzione che Albert Hirschman identificava quale alternativa alla decisione di lamentarsi e a quella di andarsene nel suo ‘Exit, Voice, and Loyalty’. Dato interessante: la ‘exit’ – che fa il paio col ‘quiet quitting’, il restare al lavoro impegnandosi però sempre meno – pare interessare in particolare le donne, tanto che si parla anche di ‘she-cession’, secessione femminile.

In realtà il fenomeno è molto trasversale, sia in termini di età che di genere. Mi focalizzo a un certo punto sulle donne non perché siano quantitativamente più rilevanti, ma perché nel loro caso la questione si complica ulteriormente. Storicamente le donne sono considerate un’eccezione nel mercato del lavoro, anche perché “malauguratamente” procreano. Da loro ci si aspetta, accanto alla piena disponibilità professionale, quella familiare: un accumularsi di pretese senza supporto sufficiente, che da tempo determina un’uscita forzata dal mercato del lavoro. Quello che cambia negli ultimi anni è che questa uscita diventa sempre meno subita e più attiva, ‘politica’: è il rifiuto dei ruoli imposti – e di certe ingiustizie quale quella salariale – che spinge a dire di no, a rifiutarsi, come dice una delle donne che ho intervistato, di essere la colla che tiene insieme questo sistema. Una forma di sottrazione che mi pare indicare un cambio di passo.

Il “preferirei di no” del Bartleby di Melville, ma anche una spallata all’idea dell’azienda come “grande famiglia”, sconfessata da quelli che la giornalista Barbara Ehrenreich chiama “rituali di umiliazione”. Eppure per molti il lavoro è ancora fonte di realizzazione e d’autostima. O no?

Sì, e qui possiamo tornare a David Graeber (l’antropologo che ha elevato a categoria di studio i ‘bullshit jobs’ o lavori-stronzata, ndr): il paradosso del lavoro contemporaneo è che spesso vi si ricerca autorealizzazione, ma al contempo lo si odia. Proprio in tale paradosso si infila la nostra epoca, come ci racconta nel libro una donna parlando del mondo culturale, in cui l’azienda come famiglia diventa un modo per occultare lo sfruttamento. E lei a un certo punto nota: non siamo una famiglia, dove se io sto male mi portate le medicine, ma un condominio, coi suoi diritti e doveri. Il cambiamento del nostro rapporto con il lavoro passa anche da queste prese di distanza dalla cultura aziendale.

A risolvere la contraddizione sta dunque una scelta che secondo lei implicherebbe “una riscrittura individuale e diffusa delle priorità dell’esistenza”. Eppure molti osservatori liquidano le grandi dimissioni quasi fossero una sorta di declino generazionale, qualcosa del tipo “questi giovani non hanno più voglia di far niente, signora mia”.

A parte il fatto che il dato anagrafico è molto ampio e trasversale alle generazioni – negli Stati uniti le grandi dimissioni hanno riguardato anzitutto gli over cinquanta –, si tratta di letture molto grossolane e fuorvianti, tese a screditare certi fenomeni sociali, allo scopo di nasconderli o negarli. I dati invece – per esempio i sondaggi del Gallup poll in base ai quali l’80 per cento degli occupati al mondo odia il proprio lavoro – mostrano che tale narrazione non è credibile, che le cause del fenomeno sono legate a forme di insostenibilità strutturale. Eppure, il gioco è sempre lo stesso: rappresentare le persone che scelgono di andarsene come moralmente attratte dall’ozio, dal proverbiale divano, quando bisognerebbe guardare alle pecche dell’attuale organizzazione del lavoro.

In Italia molti imprenditori, politici e commentatori hanno incolpato il reddito di cittadinanza per le grandi dimissioni. Non parliamo poi delle conseguenze paventate nel caso in cui si istituisse un vero reddito universale garantito. Ma c’è davvero un nesso tra ‘salario di riserva’ – peraltro molto più basso in Italia che altrove – e rifiuto del lavoro?

Ancora una volta, secondo me si tratta di un contrasto costruito a tavolino. Il vero disincentivo al lavoro non è il reddito di cittadinanza: è il lavoro povero, che priva di senso lo stesso lavorare. Quando il lavoro è pagato poco, per chi lavora non ne ‘vale più la pena’. Chi lascia in questi casi pensa, spesso giustamente, di valere di più di ciò che il lavoro rende. Spesso, inoltre, chi lascia lo fa per trovare nuove energie e fare cose più allineate ai propri bisogni o ai propri valori. L’idea che l’essere umano vada disciplinato, perché altrimenti si darebbe all’ozio, è contraddetta dall’operosità mostrata nel corso dell’intera storia umana. Non voler fare niente, come notava Anne Petersen, è semmai sintomo di burnout, di esaurimento. È una condizione innaturale che rimanda a un deperimento delle proprie energie dovuto a un sovraccarico di lavoro, non al contrario.

Per cambiare le cose servirà verosimilmente uno sforzo collettivo. Però nella “Repubblica fondata sul lavoro” – sura costituzionale cara alla sinistra italiana –, invece che del “gran partito dei lavoratori” o dei “compagni dai campi e dalle officine” oggi si canta che “il lavoro è sopravvalutato / ti rende solo libero di prenderlo in culo” (Addolorata), mentre alle pretese dei capi imbruttiti si risponde “cazzomene, cazzi tuoi” (Frank Gramuglia). Sicuri che il quarto Stato possa marciare su ritornelli del genere?

Certo che no. Però dobbiamo ricordarci da dove arriviamo: da anni di medicalizzazione diffusa del lavoro, in cui sono cresciuti il malessere psicofisico, il consumo di psicofarmaci e alcol. Nelle fabbriche, nei call center, nell’edilizia e in molti altri posti sono stati ampiamente documentati questi modi per curare una sofferenza diffusa che spesso nasceva dalla necessità di tenersi stretto un lavoro che si detestava. In tal senso le grandi dimissioni non sono una soluzione, ma sono il sintomo del fatto che qualcosa non va. Parlare di questo fenomeno significa dare forma, luogo, parole a un tema che è stato ignorato per decenni. Non a caso, in Usa e in Gran Bretagna alle ondate di grandi dimissioni sono seguite ondate di scioperi. Le grandi dimissioni hanno sospeso il normale corso delle attività produttive e costretto a porre il problema in modo pubblico. È qui che queste pratiche di sottrazione disorganizzata riportano il tema del lavoro all’ordine del giorno e ci ricordano che l’elaborazione di una risposta dovrà per forza farsi collettiva.

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