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Kurt Cobain & l’algoritmo

Dedicato ai 50enni con la T-shirt dei Nirvana che inveiscono contro la trap che arriva dalla camera dei figli

Memorabilia

Trent’anni fa Kurt Cobain si tolse la vita sparandosi in bocca con un fucile. Di quella scena musicale che cantava il proprio malessere con le vene bene in vista, ci hanno rimesso la pelle la maggior parte dei cantanti. Oggi molti tra i loro coetanei li rimpiangono, magari poggiando la puntina sul vecchio vinile e indossando una T-shirt dei Nirvana, un po’ stretta sui fianchi, inveendo contro la trap che arriva dalla camera dei figli.

Perdonateli. Mi rivolgo agli adolescenti al di là della porta: perdonate loro questo vezzo che sarà poi anche il vostro. Il tempo che passa, e si riempie sempre più di impegni togliendo ossigeno al cuore, fa perdere di vista il fatto che negli anni 90 dicessero le stesse cose del grunge, negli anni 80 del punk, e quando sarà il vostro turno, avrete anche voi dimenticato le estenuanti difese del tanto vituperato autotune.

Un momento nostalgico non si nega a nessuno. Il peccato veniale che noi stessi non possiamo perdonarci sta nell’edulcorare, con eccesso di romanticismo, il percorso da quella fucilata a oggi. Quando cediamo alla tentazione di trattare con condiscendenza chi oggi raggiunge quella tappa, ricordiamoci che è stata la nostra generazione ad aver ideato l’algoritmo. Così, immersi nella ricerca di un’identità originale, abbiamo cercato risposte in un’infinità di film cosiddetti generazionali. Alcuni si sono lasciati distrarre dai proiettili al rallentatore, ignorando il sonno profondo minacciato in ‘Matrix’, mentre altri si sono riconosciuti nei ritratti puerili all’ultimo bacio di eterni incompresi. Trasformandosi in patetici cacciatori di consenso, plasmati da un’infinità di hashtag. Dimenticandosi di essere figli di un tempo in cui commerciale era il bacio della morte, una bestemmia in chiesa. In cui si cercava la nicchia perché rappresentava un’identità specifica: ci si riconosceva per le poche cose sulle quali si concordava e per le tante su cui ci si scontrava.

Oggi è il contrario: autoriale e impegnato, sono diventati termini blasfemi. L’imperativo è non annoiare mai il pubblico; il cui intrattenimento, nelle poche ore libere, deve essere omogeneizzato e ridotto a una pappa facile da assimilare, così che possa andare a dormire per poi tornare a produrre. Di conseguenza, gli artisti si sono abituati a scrivere canzoni in cui il ritornello arriva subito, per paura che il pubblico si distragga, a voler pubblicare libri con i grandi editori e a fare film poggiandosi sulle solite formulette da scuola di scrittura. Kurt Cobain rispose al successo imprevisto di ‘Nevermind’ con ‘In Utero’: un chiaro ‘fuck you’ alla casa discografica, alla fama e ai fan occasionali ammaliati da ‘Smells Like Teen Spirit’. La scena indipendente ha sempre reagito al mainstream: ne ha bisogno, è qualcosa contro cui deve misurarsi e ribellarsi. Al contrario, il mainstream non ha alcun bisogno di un contraltare; anzi, ne è infastidito e tende a soffocarlo come un rumore di fondo fastidioso.

L’artista dovrebbe mirare a elevare le coscienze, non a intrattenerle riempiendo i vuoti che separano il ritorno al lavoro con performance da giullari. Abbiamo instillato un senso di insicurezza negli artisti portandoli a desiderare un’industrializzazione del loro mondo non per ideologia, ma per una mera rassicurazione: ingabbiando anche loro in un meccanismo perverso di produzione e consumo.

La vita è effimera e questa consapevolezza dovrebbe spingere a lasciare un segno, non a desiderare una pensione. Un altro film generazionale ci avvisava, con un monologo urlato in faccia, delle conseguenze dell’imborghesimento e del conformismo: “Scegli un lavoro. Scegli una televisione, scegli lavatrici, auto. Scegli l’assicurazione dentale. Scegli mutui a tasso fisso. Scegli un divano. Scegli di sederti su quel divano a guardare giochi a premi che ti annientano la mente e schiacciano lo spirito”. Troppo tardi. Mi rivolgo agli adulti: ricordate ai ragazzi al di là della porta ciò che una volta sapevamo bene: l’arte deve essere un graffio, non una carezza. Altrimenti, il problema sotto quella maglietta puerile dei Nirvana non sarà la panzetta, ma il cuore di latta.

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