laR+ L’intervista

Andrea Mingardi di palco in palco

Si racconta nel ‘romanzo dei musicisti italiani’, ma anche giovedì 23 novembre dal vivo al Sociale: ‘So più cose io su Bellinzona che quelli di Lugano’

Sul palco alle 20.30. Alle 18, nella sala del Consiglio comunale, la presentazione del libro
22 novembre 2023
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È tempo di Galà di Natale al Teatro Sociale di Bellinzona. Con Andrea Mingardi riunito ai Supercircus, domani alle 20.30 si chiude il 2023 della Fondazione del Patriziato e con esso le celebrazioni per il 25ennale della nascita dell’associazione. Chi altri avrebbe potuto concludere meglio di Mingardi, artista che a Bellinzona è legato da un rapporto profondo e – lo dice in fondo alla pagina – dalla Città non ha bisogno di riconoscimenti ufficiali. Prima del concerto, alle 18 nella sala del Consiglio comunale, l’artista presenta ‘Così si suonava in Paradiso’ (Pendragon), il suo “romanzo dei musicisti italiani” (sottotitolo) non solo per musicisti. Ma andiamo al sodo.

Va bene Andrea o devo chiamarti Fabio?

Nel libro ho questo nome e non il mio perché ci sono tanti Fabio e tanti Andrea che hanno vissuto quei momenti, ho provato a rappresentare una categoria, senza essere referenziale.

‘Così si suonava in Paradiso’ parte più o meno dal tuo primo ruolo nella musica: il ‘produttore seriale di rumore’…

Da piccolo, la musica che arrivava ai ragazzini era all’insegna della delicatezza, del romanticismo, della melodrammaticità. Il rumore era una forma di rivoluzione. Io avevo scelto lo strumento che rompeva i timpani più di tutti, la batteria, ma picchiavo su qualsiasi cosa trovassi per casa. Suonare il rock and roll significava rompere col passato. Non che quel passato mi facesse schifo, ma per un teenager, termine che ancora non c’era, non era la cosa più affascinante.

Le rivoluzioni, o fanno rumore oppure non sono rivoluzioni…

Sì, anche perché quel rumore accompagnava il disagio di sentirsi trasparenti. Siamo sinceri: fino a che eri un bimbo, se eri fortunato potevi essere coccolato, ma una volta ragazzino, col tuo carico di domande eri un peso, entravi nella fase in cui i genitori ti chiedevano di studiare, diplomarti, laurearti, e presto.

Ellade Bandini, che suona con te in ‘Si sente dire in giro’, mi disse un giorno che quando si trattava di incidere un disco, i produttori chiamavano i musicisti delle orchestre da ballo perché sapevano suonare tutto.

Ellade! Il tempo lo inventava lui! È così. Per imparare a suonare si andava al conservatorio, la fabbrica degli anti-musicali, musicisti e cantanti squadrati che non tenevano conto delle battute e facevano una fatica terribile a cantare gli standard americani, per esempio. C’è una generazione di cantanti che su ‘Volare’ andava fuori tempo. Le orchestre invece suonavano 70-80 pezzi a sera, creando musicisti capaci di affrontare una valanga di generi. E poi la stella polare del musicista di quegli anni era il jazz, coi suoi idoli da imitare, nel tempo, nell’armonia, nell’improvvisazione. I jazzisti non se la passavano bene, io li ho aiutati, prendendoli con me: ho avuto Paul Bley, Eddie Busnello, Gato Barbieri, gente fantastica che dall’orchestra da ballo qualcosa ha imparato.

“In quel lavoro non esisteva la pianura”, scrivi nel libro...

Facendo ‘la professione’, un musicista arrivava a suonare fino a 200 volte l’anno, nei night club che erano come miniere, dove sapevi quando entravi ma non quando uscivi, o nei dancing come l’Altromondo di Rimini, dove ho suonato con tutti, anche con James Brown. La grande pianura era una pista di decollo che poteva portarti ovunque. È successo a me, a Dalla, Celentano, Renato Zero, sono tutti partiti da lì e hanno capito, guardando in faccia la bellissima gioventù che avevano davanti, che o li capivi oppure ti mollavano. E che belli erano quei pezzi dalle strutture ritmiche e armoniche sempre diverse!

Proprio come oggi…

(ride, ndr) Il rock and roll fu un Rinascimento e gli anni 70 portarono musicisti e gruppi superbi: Hendrix, Cream, Genesis, Yes, gente che faceva cose difficili e bellissime, e ora abbiamo la ‘cassa in quattro’.

Hai citato James Brown, devo chiederti della tua esperienza con i Blues Brothers.

Una meraviglia, sul palco e giù dal palco. Steve Cropper ha scritto cose come ‘(Sitting on) the Dock of the Bay’, Lou Marini ha suonato con Ray Charles. A tavola aprivano bocca e cascava un dio della musica col quale avevano collaborato. Si sono comportati come fossero la mia band, con gentilezza, affetto e partecipazione. Mi hanno detto di aver trovato un secondo Blues Brothers e nei concerti ho capito che appena fai ‘Sweet Home Chicago’ hai già vinto. Rob Paparozzi suonava l’armonica e saltava come un grillo, era il mio gruppo, mi sono sentito a casa.

In mezzo a tutta questa musica anglofona, il tuo primo album è ‘Nessuno siam perfetti, ciascuno abbiamo i suoi difetti’, in dialetto.

Il dialetto è una filosofia, ma ha anche la capacità ritmica che mi avvicinava a James Brown. ‘Xa vutt dalla vétta’ è stato forse il primo rap italiano. Il dialetto mi consentiva di dire con un’espressione ideomatica cose che in italiano avrebbero avuto un altro significato. Lo facevo senza perdere le mie radici soul, blues e funk, e non mi sono mai consegnato a chi vede il dialetto come una cosa da quarti di vino e osterie.

Apro il libro a pag. 59: durante una matinée domenicale con i tuoi Golden Rock Boys, si avvicina una ‘fanciulla sorridente’ e ti dice: ‘Piacere sono Baby Gate…’.

Suonavamo il rock and roll al Mocambo, un locale vicino Modena, davanti a un parterre de roi clamoroso di modenesi come Bonvi, Guccini, Vandelli, tutta la rockeria modenese veniva a sentire come cavolo facessero questi quattro ragazzini bolognesi a ‘spolverare’ tanto in un locale da ballo. Tra i clienti, una sera si fa avanti un cameriere: “Ci sono due ragazzi che vogliono parlare con te”, mi dice; l’altra persona ho scoperto poi essere il maestro Tony De Vita, lei invece era una che non stava ferma nemmeno seduta, deliziosa, eravamo coetanei; mi invitarono a Milano a fare un provino e io, come un imbecille, me ne fregai e non ci andai.

Poi a Cremona, una sera, mi venne a trovare il fratello Geronimo, che tempo dopo morì in un incidente: “Sono Geronimo dei Solitari, sono il fratello di Baby Gate, adesso si chiama Mina”. Siamo diventati amici, tanti anni dopo ho scritto per lei ‘Ogni tanto è bello stare soli’, e poi 24 canzoni. Ci si telefonava molto spesso, anche per commentare Sanremo. Era un rapporto tra due orchestrali cresciuti allo stesso modo, con gli stessi idoli, e io la stupivo perché forse ne sapevo un po’ più di lei. Perché lei ne sa, ne sa eccome…

Che succederà a Bellinzona?

Prima di tutto festeggeremo i 25 anni dalla fondazione del Patriziato con i miei amici svizzeri, Carlo Chicherio in testa. È lui che mi fa la scaletta dello spettacolo: “Quella la devi fare, quella dobbiamo sentire”...

Non sarebbe ora di una bella cittadinanza onoraria?

Per me ogni volta è come tornare a casa, mi sento già cittadino onorario di Bellinzona. E poi c’è già Türkyilmaz, che ha giocato nel Bologna. Sai cos’è? È che il tempo passa e tu invecchi, e vedi scomparire un sacco di cose; e quando ti rendi conto che alcune sono rimaste intatte, è una gran gioia. E comunque conosco più cose io di Bellinzona che quelli di Lugano.

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