Spettacoli

Sanremo for dummies

In attesa della conferenza stampa di presentazione del Festival della Canzone Italiana, ecco alcune chiavi di lettura (alcune illustri)

5 febbraio 2018
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Sanremo – “Guardate Lorena Bobbit, pensate a suo marito: quale interesse ripone lui nei Mondiali, secondo voi?”. Così scrivevano nel ’94 gli Elio e le Storie Tese, che per risparmio di battute, da oggi e sino al 10 febbraio chiameremo con l’acronimo EelST, ‘Elii’ oppure ‘Complessino’. ‘Nessuno allo stadio’ è un loro vecchio brano che narrava il disinteresse del popolo statunitense verso i Mondiali di calcio di quell’anno. La stessa palpabile indifferenza mostrata alle nostre latitudini ogni volta che arriva febbraio. E con febbraio, il Festival di Sanremo.

Cercheremo di essere empatici, da oggi in poi, provando a immedesimarci in tutti coloro i quali, impegnati in un più sentito Carnevale, non comprendono come una gara di canzoni possa tenere in ostaggio un’intera nazione. Il dramma, è bene ammetterlo, è che Sanremo è come il Natale: ogni anno inizia qualche giorno prima. Non bastassero le dirette da ogni angolo della Riviera dei fiori, la Rai riempie da mesi ‘Domenica in’, contenitore pomeridiano del giorno di festa, di giovani (validi) aspiranti e vecchie glorie della manifestazione. Alcune così vecchie che qualcuno (un autoironico Claudio Lippi) ha ribattezzato il programma ‘Domenica Inps’.

C’è uno strisciante malumore quando in Ticino si dice “Sanremo”. La Svizzera, storicamente, va matta per l’Eurovision song contest (che per identico risparmio di battute chiameremo ‘Eurosong’). Non importa se da molto tempo la manifestazione mette in mostra, come da sotto un impermeabile spalancato all’improvviso, scenografie spaziali e splendide voci, le uniche a esibirsi dal vivo; non importa se non c’è un’orchestra suonante, se il tunz-tunz è il “battito animale” che “batte come non ce n’è” e alla fine un portoghese filiforme dal cuore ballerino fa saltare il banco. Con una canzone vera.

Vorremmo dare una descrizione fedele di cos’è Sanremo. Un meccanismo che si potrebbe riassumere tutto in: un tizio sale su di un palco e canta una canzone; poi s’inchina, saluta e se ne va, senza tante menate. Ed è bello così. Non la pensava allo stesso modo il defunto Yves Montand, secondo il quale, quando si parla di canzoni, gli italiani avrebbero “il gusto di rendere difficili le cose semplici”.

Per neutralità, abbiamo recuperato parole inedite da un’intervista concessaci tempo fa da un musicista senza paraocchi. Parole rimaste chiuse in un registratore, leggere e preziose allo stesso tempo, specchio di chi le pronuncia: «Non mi piace la gara, in nessun senso. Figurati, non mi piacciono nemmeno le partite di calcio. E nemmeno le guerre. Non mi piace dover decidere chi è più bravo di un altro a far qualcosa. La seconda volta fu molto bello, c’era anche Caetano (Veloso, ndr), abbiamo fatto una cosa insieme. La prima volta mi sono divertito molto, perché, dietro, il carrozzone fa impressione. I camerini sono piccoli, lo spazio per arrivare in scena è davvero poco. Si sta stretti come sardine, ma tutti, una volta sotto i riflettori, millantano un’aria molto rilassata. Ogni volta che vedo entrare un cantante penso sempre che prima di arrivare sul palco ha chiesto permesso a 50 persone. Che si scenda la scala oppure no, poco importa, la situazione è già abbastanza precaria lì dietro. Una delle cose buffe è che a Sanremo non ci si incontra mai. Quando ci sono stato io, lo stesso camerino valeva per 6 persone. E una volta finita l’esibizione, il mio camerino era diventato quello di un altro. L’altra cosa buffa è che nessuno ascolta gli altri: non appena hanno finito di cantare, vanno tutti a mangiare» (Stefano Bollani).

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