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Il cinismo non è una virtù

Di uomini di potere (un complimento), statue più grandi del mondo, case in pietra, numeri e la primavera per tutti, dai ragni agli umani

Henry Kissinger, 1923-2023
(Keystone)

Un consigliere. Mattina monografica a rileggere commenti alla lunga vita di Kissinger, a quattro mesi dalla morte. Arrivato a quello del canadese ‘National Post’, firmato Raymond de Souza, suo grande ammiratore, mi fermo. Dopo l’immediata reazione alla scomparsa si riflette sui singoli momenti della carriera. Si ritrova una lettera, si ricorda un’esperienza personale o del proprio Paese in relazione a K. Si rammemorano i motti di spirito. (“Spietate sottigliezze”, le chiamò Giorgio Ferrari su ‘Avvenire’). Gli uomini di potere amano lanciare battute sul potere. Si può dire una cosa sul potere che non sia cinica? Sì, ma le conosce chi non lo detiene. Cinismo – che stimano una delle loro maggiori virtù – e colpi ad effetto imbevono tutti gli altri temi su cui sono interpellati. Poco meno che un farabutto o molto di più, secondo una piccola e agguerrita parte della stampa: la parte che non ha esitato un secondo, avendo le idee chiarissime, al momento di scrivere le tre o quattro colonne richieste. Gli amanti dell’obiettività e dei panorami esaustivi, del dettaglio, si sono presi qualche ora in più andando a letto alle 3. Negli amanti invece di K. e di figure come la sua, è il caso di Souza sul ‘National Post’, l’indugio è dovuto al piacere prodotto dal ripassare tanti esempi di lungimiranza. Ma quelli che hanno dormito meno sono i primi. Dritti al merito della questione, iniziando e finendo in un’ora, ma ripensare a cosa è stato del Cile sotto Pinochet, dell’Argentina sotto Videla, rende difficile il sonno. Ora soprattutto che spuntano negatori o laudatori. Pinochet al potere ce l’ha praticamente messo lui (nell’anno del Nobel, il ’73). Videla ha fatto tutto il possibile perché vi andasse. Disse, riguardo al Cile, che “la questione è troppo importante perché la lasciamo decidere ai cileni”. Più di questo ha fatto, in decenni – forse trenta, forse cinquanta o sessanta – di consigli che diventavano atti, ma per avere un giudizio della persona basta meno.


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‘Eh, Míster Pinochet / Su siembra huele mal’ (Sting, ‘They Dance Alone’ - 1987)

Cool Journalism. La statua più alta del mondo si trova in India e raffigura il leader dell’indipendenza Sardar Patel. Ne scorgo l’enorme piede con un omino sopra e non mi accorgo che si tratta di un piede. Inquadratura troppo ravvicinata. L’ha fatta costruire il Primo Ministro – denominazione ufficiale e insufficiente – indiano Modi. Su Modi ho letto, dopo aver visto il piede, vari commenti, tutti giustamente critici a dire poco. Poi ho visto petali fatti cadere sulla folla da aerei militari, abbinamento già prepotentemente simbolico, all’inaugurazione del tempio di Ayodhya officiata da lui stesso. I dittatori negano e ostentano, al tempo stesso, i crimini che vanno pensando e attuando. E quelli di Modi sono noti.

Si dà il caso che uno degli opinionisti del ‘Wall Street Journal’, Walter Russel Mead, esperto di cose “globali”, membro di una dozzina di associazioni e fondazioni che incoraggiano il dialogo universale, si trovi in India per una conferenza di tema economico. Chiede a Modi: “Come posso avere una misura del successo del Bharatiya Janata Party?”. Modi risponde: “Vada a Varanasi e a Ayodhya”. E lui ci va. O dice di andarci. Quel che ne consegue, l’articolo per il ‘WSJ’, è un pasticcio freddo di religione e politica, economia, militarismo e turismo – com’è un miscuglio (ma caldo) degli stessi ingredienti appunto il governo di Modi – osservato da Mead con la più grande indifferenza o cauto interesse, nei due sensi del termine.

Come scrive un chatbot ce l’hanno mostrato in tanti ma migliorerà. Oltre che tramite lo stesso aggeggio, ne facciamo esperienza leggendo i giornali. Trovare un giornalista chatbot, anche nei migliori quotidiani, non pregiudica la qualità del giornale, che nel caso del ‘Wall Street Journal’ non so ancora quantificare. Cosa colpisce in un elaborato emesso dalla Intelligenza artificiale (Ia)? L’incredibile scontatezza, la genericità inarrivabile, la totale assenza di un giudizio che si intuisca personale (l’aspetto più comprensibile). In una parola, la quasi stupidità. E la stupidità non è innocua. Instupidisce, dato che tutto si contagia tra gli esseri umani (o viventi). Un umano che arriva con le sue sole forze ai livelli di frigidezza dell’articolo di Mead – chi, andando a una festa religiosa indiana, non ne riporta una sensazione un poco viva? –, per dimostrare a sé stesso che: “Non sono un robot”, può aggiungere esili inconsapevoli fioretti retorici, periodi tripartiti che non attenuano ma ornano la pochezza dello scritto. Tema di questa nota non è l’India né il suo Primo Ministro, né il nazionalismo nelle sue varie forme (in India forse tutte), fino alla criminalità di Stato largamente praticata. Il tema è il giornalismo. E cioè, nel caso specifico: l’India e il suo Primo Ministro, il nazionalismo e i crimini che perpetra quando diventa tirannia. Leggo cinque e sei volte l’articolo, temendo di essere stato ingiusto. Cerco l’impressione, pessima, della prima lettura e non la ritrovo. Però ha lasciato un’orma. Devo fidarmene? Forse ho esagerato, e il resoconto di Mead è soltanto reticente e turistico, pilatesco e molle.


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Dietro, Sardar Patel

Lasciare la casa. Con la pandemia la nostra relazione con la casa si è approfondita. Il mutamento ha generato una piccola biblioteca mondiale di libri su cos’è una casa, cosa sia la nostra casa... Ora appaiono più sporadicamente, ma il cambiamento (fino al rintanamento) essenziale è avvenuto. E durerà, non sappiamo in quali forme, perché le minacce seguite alla pandemia, anche loro, invitano a chiuderti in casa.

La regista tedesca Jacqueline Kornmüller intende uscire per sempre dalla casa in cui vive da dieci anni. Casa in pietra antica 140 anni, nella Stiria orientale, bella e amata ma, come chi lavora nel teatro, la regista ha una tendenza a cambiare luoghi, condivisa dal compagno e collaboratore Peter Wolf. Die Haus verlassen (Lasciare la casa) è un libro a due, illustrato da Kat Menschik. Leggo la recensione o la “storia”, firmata da Teresa Schaur-Wünsch, sul viennese ‘Die Presse’. La regista diffonde dunque l’annuncio e riceve le prime visite degli aspiranti. La vediamo seduta su un davanzale, incorniciata dalla finestra e dalle imposte verdi, i piedi poggiati sull’ultimo piolo di una colorata scala. E sorridente perché alla fine non l’ha lasciata. La casa ha deciso, visita dopo visita dei curiosi o scettici, importuni aspiranti, che non vuol lasciare chi la abita. E a lei non resta che ascoltarne le lagnanze o la richiesta esplicita. Gli incontri con gli improbabili visitatori fanno nascere l’idea di un libro, ma soprattutto preludono all’unico vero incontro: quello, rinnovato, con la casa.

Prunus avium. Quanti articoli pieni di numeri. Anche quelli d’opinione (basta che si riferiscano a una statistica o a una ricerca). Mi accorgo che la lettura in prossimità dei numeri accelera, per una premura di superare la secchezza delle cifre, invece dovrebbe rallentare. Altra difficoltà: i numeri tendono a raggrupparsi in poche righe, e tu correndo te li perdi tutti. Un buon quinto della sostanza dell’articolo è andato. Ultima questione: dare i famosi “dati” è metà del lavoro. L’altra metà, più importante, è l’interpretazione. Ma dipende dal peso dei temi. Non è il caso delle ciliegie cilene che viaggiano verso la Cina – il Cile soddisfa il 60% del mercato mondiale; ha esportato l’anno scorso 415’000 tonnellate di ciliegie; il che ha significato un guadagno di 2,2 miliardi d’euro; nel 2019, 38’000 ettari erano destinati a “cerezales”, oggi sono 62’000 -: qui le cifre non richiedono d’essere interpretate salvo che dai produttori di ciliegie cileni.

Dei tanti numeri che leggo nel ‘Figaro’ mi colpisce il 21, visto che è seguito da un inatteso “circa”. Lo interpreto come un “quasi sempre”: le ciliegie cilene per arrivare in Cina, in nave, impiegano di solito 21 giorni. A un impeccabile servizio logistico nel Paese di produzione, racconta Valentin Hamon-Beugin – doccia fredda al cloro contro i batteri; nove ore di viaggio fino a Requinoa in camion refrigerati, per l’imballaggio; altro viaggio per il porto di San Antonio, pronte per il viaggio più lungo verso l’Asia – corrisponde una logistica altrettanto efficiente una volta a destinazione. Accade che i cinesi, per una tradizione recentissima – una decina d’anni – amano regalare ciliegie nella festa del nuovo anno, e il Cile riesce a soddisfare quasi interamente tale esigenza.

Vedo le ciliegie nel loro lungo viaggio per mare. Mi domando come se la passino quelle che si ritrovano sotto il cumulo delle altre. Scopro che la qualità di una ciliegia si nota nel calibro, nella sodezza e nel colore. Quanto alla lucentezza, si deve a una cera che produce naturalmente, per proteggersi. Anche se non basterà da sola a distogliere la gola degli uccelli, che motivano il nome linneano del frutto: Prunus avium. Plinio vuole che sia stata introdotta in occidente da Lucullo dopo la vittoria su Mitridate, perché prima non ce n’erano. Il fatto è che prima ce n’erano, come rivelano resti di semi trovati. Mentre i giapponesi si preparano a osservarne la fioritura, a marzo inoltrato, i cinesi già ne godono i frutti il 10 febbraio. Quest’anno però la prima fioritura in Giappone è già avvenuta.


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È primavera

La tranquillità dell’animo. Una donna giapponese tocca un fiore di ciliegio, sorridendo. Vedo la fotografia ma non ricordo dove, la perdo. Faccio il giro di una decina di ‘Guardian’ e di ‘Tagesspiegel’ ma niente. La donna appariva nell’angolo in basso e il resto è tutto un rosa biancheggiante. La fioritura è in anticipo di un mese. Nel recente passato, o un po’ meno recente, i giorni consueti erano l’ultima settimana di marzo. Ma è così quasi ovunque, ormai, per piante e animali.

L’altro giorno, per esempio, sembrava una formica ma era un minuscolo ragnetto. Corre veloce ma non perché scappi. Avvicino il dito e ora forse scappa via. Cambio la posizione del dito e ci sale su. Muovo la mano verso la panchina e lui sputa il filo che lo deposita giù. Non so se esista l’insect-watching. Lo pratico quando capita. A occhio nudo. Dopo il ragnetto vedo lo scoiattolo, a distanza di pochi giorni e quasi in piena città. Dal prato dove mastica qualcosa, scala l’albero per metà, rapidissimo anche lui. Poi va più su. Dieci minuti prima avevo incontrato l’insetto colibrì. Non si lascia distrarre dal suo passare da un fiore all’altro, fermo nell’aria grazie ai suoi 90 battiti d’ala al secondo e agli addominali d’acciaio.

Tutti segnali che la primavera è anche qui. L’aria si riscalda e abbiamo voglia di lasciare la casa, tutti. Dal ragno alla mimosa. Il timore per il riscaldamento globale taglia di netto, o dovrebbe, la sorpresa e la piccola gioia, la pacificazione che dà vedere un animale nel compiere una delle funzioni della sua vita. Tale sorpresa e tranquillità dell’animo, quasi inspiegabili, dovrebbero convertirsi, con l’aiuto della nostra traballante logica, in paura e tristezza.

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