laR+ L’intervista

Nel luogo in cui tutte le bussole impazzirono

I suoi libri rinfrescano la memoria ai nostalgici del Duce e alla propaganda post mortem: a colloquio con Francesco Filippi nel Giorno della Memoria

Auschwitz-Birkenau dopo la liberazione
(Keystone)
27 gennaio 2024
|

Nel discorso preparato in occasione della laurea honoris causa in Studi letterari e culturali internazionali conferitagli dalla Facoltà di lettere dell’Università di Firenze, il 27 gennaio 2008, lo scrittore Israeliano David Grossman si rivolge alla platea ponendo alcuni fondamentali interrogativi sul Giorno della Memoria: esiste un dibattito sulla Shoah in quanto avvenimento dal significato universale e non esclusivamente ebraico? Tale dibattito è significativo e autentico oppure con l’andare degli anni si è trasformato in un obbligo formale, di tributo che il senso di colpa europeo si sente in dovere di pagare una volta all’anno agli ebrei e a quanti morirono nei campi di concentramento nazisti?

Si è detto e scritto tanto sull’argomento. Sono stati prodotti film, pièce teatrali, documentari, romanzi e saggi nel tentativo di dare forma e spiegazione a un genocidio talmente feroce e organizzato da andare oltre la più perversa delle fantasie. Era ed è tuttora necessario stimolare il dibattito, esercitare il pensiero per poter analizzare ciò che è accaduto in una prospettiva storica più ampia, di modo da – per dirla sempre con Grossman – penetrare in quelle tenebre, nel luogo in cui tutte le bussole impazzirono.

Tutto questo però, paradossalmente, rischia di portare la riflessione su un piano di astrazione che allenta il legame con la dimensione umana e privata dell’evento. Restiamo umani ripeteva l’attivista per la pace ucciso in Palestina Vittorio Arrigoni, proprio per invitarci a non dimenticare che dietro ai grandi numeri ci sono, prima di tutto, singole persone, con le loro vicende di vita, di morte, spesso simili ma profondamente uniche.

E così anche Grossman sottolinea come per non logorare la memoria e potervi trarre un insegnamento morale sia fondamentale partire dalle storie individuali, così da cogliere quella vicinanza emotiva indispensabile a far sì che la Shoah non si trasformi in un incubo confezionato. Bisogna piuttosto vestire i panni degli aguzzini e delle vittime, chiedersi cosa avremmo fatto, allora, se fossimo stati cittadini tedeschi ariani o, al contrario, ci fossimo trovati dall’altra parte della barricata. Solo sottoponendosi a questo autointerrogatorio è possibile affrontare ciò che è stato.

Sono ormai pochi i testimoni diretti ancora in grado di raccontare, ma c’è chi si è fatto carico della loro memoria portando avanti la battaglia contro l’oblio e le mistificazioni storiche. Uno di questi è Francesco Filippi. Storico della mentalità, formatore presso l’Associazione di promozione sociale Deina e scrittore, Filippi è autore di tre utilissimi libri (‘Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo’, ‘Ma perché siamo ancora fascisti? Un conto rimasto aperto’ e ‘Noi però gli abbiamo fatto le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie’) volti a rinfrescare la memoria a nostalgici del Duce e a chi, ancora, cade nella trappola della sua propaganda post mortem. Lo abbiamo raggiunto per parlare del 27 gennaio.

Francesco Filippi, lei è uno storico, giornalista e formatore. Che cosa l’ha portata a scegliere di occuparsi di memoria storica e di fascismo?

Dopo una prima formazione di carattere storico e filosofico, fra Trento, Piemonte e Lombardia ho iniziato a occuparmi di viaggi della memoria all’interno di percorsi didattici volti alla sensibilizzazione sull’argomento. L’incontro con l’immaginario di ragazzi e ragazze mi ha fatto capire però quanta distanza ci fosse tra quella che è la realtà degli studi storici sul fascismo (che in Italia sono ampissimi ed esaustivi) e ciò che di fatto le nuove generazioni sanno. Mi sono imbattuto nelle fake news costruite dal regime stesso e che ho scoperto essere ancora vive e vegete nella mentalità degli italiani. Questa nuova consapevolezza mi ha permesso di spostarmi dallo studio storico di ricerca d’archivio verso l’approfondimento dell’Histoire des mentalités, ovvero del rapporto tra storia e memoria, tra passato e presente. Cosa prende la società dal passato per raccontare l’oggi? Da questa domanda è nato il mio primo libro ‘Mussolini ha fatto anche cose buone’, il cui obiettivo è sfatare le bufale costruite dal fascismo.

Tramite i percorsi didattici che organizza con le scuole, lei ha avuto modo di affrontare il tema della guerra e della Shoah con i giovani. Qual è la percezione di un ragazzo rispetto alla memoria dell’Olocausto?

Le percezioni sono duplici. Si potrebbe parlare di due grandi filoni. Il primo è quello archeologico/memoriale che riguarda il ricordo di questo passato, sedimentato attorno ad alcuni topos chiave come la memoria del dolore e delle vittime e quella narrata dai grandi mezzi di informazione attraverso film e documentari. Questo tipo di memoria è molto solido. Non dimentichiamo che gli italiani sono la quarta nazionalità per visite ad Auschwitz dopo statunitensi, inglesi e israeliani.

Il secondo filone invece riguarda il rapporto con l’oggi. Auschwitz è un grande archetipo che nel corso del tempo è andato mutando nella memoria collettiva. Se nel 2012/2013, quando ho cominciato, il mai più scandito di fronte ai cancelli si collegava all’idea di un terribile passato difficile da immaginare, oggi, soprattutto nei ragazzi, emerge la consapevolezza che ciò che è successo potrebbe tornare. Auschwitz è diventato anche un luogo di riflessione su quel che l’Europa sta diventando, sulla nuova fortezza che sta costruendo per escludere i migranti lasciandoli morire in mare e alimentando un immaginario ostile verso la diversità. Negli ultimi due anni a questa percezione si aggiunge anche il tema delle guerre come prova dell’incapacità dell’essere umano di apprendere dai propri errori. Auschwitz è un creatore di nuove memorie e di nuovi percorsi civici.

In collaborazione con l’Associazione Deina organizza anche viaggi della memoria nei luoghi di deportazione. Come si svolge il viaggio?

A febbraio partiremo per Cracovia insieme a 4 treni in grado di ospitare circa ottocento ragazzi di età compresa tra i 17 e i 25 anni. Il primo giorno prevede una visita della città, del quartiere ebraico, del ghetto e del museo civico di Schindler (personaggio diventato celebre grazie al film di Spielberg). La seconda tappa è dedicata ad Auschwitz e a Birkenau. L’ultimo giorno invece lo usiamo per rielaborare ciò che abbiamo visto.

“Come fai a entrare in questi luoghi?” Questo è quello che mi chiedono ogni anno a causa del carico emotivo scatenato da questi viaggi. Io spiego sempre che ogni volta l’impatto è diverso perché se il luogo rimane uguale a cambiare è la mia percezione. Auschwitz ha sempre qualcosa di nuovo da raccontarmi.

Ci si dimentica spesso che questo posto comprende due campi distinti: c’è il complesso primario, diventato un percorso museale, che oggi ospita diversi padiglioni adibiti a più nazioni, e poi c’è Birkenau. Questa è la vera esperienza, soprattutto se fatta in inverno: basta osservare i 171 ettari di terreno da cui è composto per comprendere l’enormità dell’Olocausto. Birkenau (bosco di betulle, in tedesco) è uno dei luoghi più emotivamente impressionanti.

Il 27 gennaio quest’anno rischia di essere un Giorno della Memoria molto teso. Che cosa può dirci rispetto a quello che sta accadendo in Medio Oriente? Quanto ha a che fare il decennale conflitto tra Israele e Palestina con la fine della Seconda guerra mondiale?

Su questo argomento ci sono due punti da mettere in evidenza. Il primo riguarda la nascita dello Stato di Israele nel 1948, per dare rifugio agli ebrei di tutto il mondo. Auschwitz è una delle pietre su cui si fonda questo Stato. Il secondo passaggio è quello riguardante la memoria universale.

Auschwitz è un simbolo iconico, è un luogo in cui la tecnica incontra la morte. È un prodotto inedito, perché per la prima volta nella storia interi apparati statali si piegano a diventare un unico strumento di efficientismo economico volto alla distruzione dell’uomo. Qualcuno ha definito i campi di sterminio come il punto più basso della modernità quando in realtà accade proprio il contrario, se per modernità intendiamo lo sviluppo della tecnologia e dell’organizzazione. Non si può relegare questo luogo al passato, banalmente perché i valori che negli anni 30 hanno fatto da brodo di coltura per l’Olocausto sono gli stessi che ancora oggi ci caratterizzano. Penso, per esempio, alla superiorità delle leggi nei confronti dei singoli che oggi si esplicita nel codice della strada. Allora invece suddivideva le persone in categorie. Lo stesso vale per il nostro vocabolario ancora ricco di termini come patria, onore, nazione.

Non me la sento di ridurre o di chiudere l’esperienza di una visita ad Auschwitz all’interno di una pur drammatica contingenza di una guerra in Medio Oriente. Andare là significa riprendere le drammatiche radici dell’occidente. Auschwitz in questo senso deve essere difeso come un archetipo, come un grande allarme.

Cosa può comportare l’assunzione strutturale della posizione di vittima in un popolo?

Nel corso degli anni ho accompagnato nei viaggi della memoria più di 25mila ragazzi. La maggioranza si identifica in quell’orrore, empatizza con il dolore dei morti anche se il 90% di loro, se avesse vissuto nel ’42, non avrebbe fatto parte del gruppo delle vittime. Andare ad Auschwitz per impersonare la sofferenza è un abuso di quella che io chiamo archeologia del dolore: indossare abiti non nostri. Il viaggio è utile per ricordarci che possiamo essere carnefici o, quanto meno, zona grigia, come la definiva Primo Levi.

Interi popoli che si sono autodefiniti vittime hanno vestito panni che non tutti potevano vestire. Anche perché i panni cambiano nel corso della storia. Andare ad Auschwitz oggi significa ricordare soprattutto quali sono i freni che ci permettono di evitare che questo accada di nuovo. La scelta è nelle mani dei carnefici o della zona grigia, non in quelle delle vittime. Bisogna chiedersi da che parte del filo spinato saremmo, oggi. E a partire dalla risposta che ognuno si dà ricavare le basi per un nuovo tipo di società. Anche perché nel corso della storia i parametri possono cambiare. Uno dei grandi drammi dell’essere vittima nel ’900 è che essere nemici dello Stato dipende dallo Stato. La salvezza non è detto che sia permanente. Ci si è chiesti spesso quanta umanità ci fosse nelle SS. Io ribalterei la domanda chiedendo: quanto di SS c’è nell’umanità?


Francesco Filippi, storico e scrittore

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔
POTREBBE INTERESSARTI ANCHE