LIBRI

Caro Calvino, caro Sciascia

L'epistolario dei due scrittori con tanti punti in comune, tra pettegolezzi e curiosità

14 ottobre 2023
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“Ma possibile che questo accidente di uomo sia sempre così controllato e cosciente e funzionale nella sua missione di moralista civile, possibile che mai salti fuori lui di persona col suo demone, il suo momento lirico e privato in contrapposizione a quello pubblico e storico, il suo mito, la sua follia?”. È Calvino che parla di Sciascia, ma potrebbe anche essere il contrario, se alla disillusione sarcastica e amara, che camuffa, senza attenuarla, l’indignazione per l’oscenità e l’insensatezza delle vicende politiche italiane, si sostituisse l’attitudine del moralista classico, che assegna il giusto posto agli oggetti e ai fatti, messi in prospettiva con uno sguardo apparentemente impersonale dopo averne preso le esatte misure e dopo averli ordinati in un disegno, in una simmetria e in una rete di immagini. Entrambi hanno liberato la pagina scritta dal narcisistico ingombro dell’io, ponendosi come occhi sospesi sul mondo: Calvino con la precisione e lo stupore dello scienziato, in un ottimismo della volontà che solo nelle confidenze agli amici cede alla disperazione metafisica (riconoscendo, con Vittorio Sereni, che “di tutti i colori il più forte – il più indelebile – è il colore del vuoto”), Sciascia col pessimismo della ragione, inscenando nella sua asciutta sobrietà una conflittuale coesistenza di delusioni e di impegno.

Oltre i confini della narrativa

Altro tratto in comune, la tendenza a forzare i confini della narrativa, che in Calvino si rimodellano al mutare della realtà e all’esito delle riflessioni sul modo più opportuno di rappresentarla, in Sciascia si intersecano con quelli del saggio e dell’indagine storica. Due figli dei Lumi, ciascuno a modo proprio, quasi coetanei, che si stimano, si scrivono, si cercano e si stimolano. ‘L’illuminismo mio e tuo’, da poco uscito per Mondadori a cura di Mario Barenghi e Paolo Squillacioti, è del resto un titolo adatto a un epistolario che inizia nel 1953, quando un insegnante elementare siciliano chiede a un redattore di Einaudi di inviargli un libro da recensire, invitandolo a collaborare alla raffinata rivista letteraria che dirige, e termina nel 1985, l’anno in cui la morte sorprende Calvino mentre sta ultimando la stesura delle ‘Lezioni americane’. I due si annusano, si riconoscono, passano rapidamente dal lei al tu; ognuno confida all’altro di ritenerlo il migliore lettore possibile e il giudice più affidabile delle proprie opere. Ma non ci si aspetti una teoria di salamelecchi, elogi incondizionati, gesti di cortesia. Si legga l’opinione di Calvino sul racconto di Sciascia ‘La morte di Stalin’: “In qualche parte c’è troppo la cronaca degli avvenimenti storici, il resoconto di quel che pubblicano i giornali, senza abbastanza controparte di narrazione. (...) Insomma, è un libro a cui se tu ti sentissi di lavorarci ancora, potrebbe dire molto di più. Così è piuttosto superficiale, con un sospetto di facilità”. E ancora: “Chi se ne frega del costume? Lascia che se ne occupino quelli che fanno le colonnine sul ‘Mondo’. Oggi la letteratura dev’essere terribile”. Con altrettanta sincerità, Sciascia non si fa problemi a sollecitare una pubblicazione: “Ti prego di fare quanto ti è possibile perché il libro esca al più presto. Ritengo (spero) di non essere stato impaziente, ma ora mi occorre avere il libro subito perché debbo avere dei soldi (e non li avrò, o ne avrò di meno, se il libro ritarda)”. In certi casi, sembra addirittura che stia tracimando nell’avvertimento, neanche troppo velato: “Con tutta franchezza (e spero che me lo permetterai in nome dell’amicizia), ti confesso che il mio editore ideale è Vito Laterza: non solo perché paga i diritti con puntualità e scrupolo (cosa di cui non importa poi molto), ma perché diffonde il libro come meglio non si potrebbe”.

Progetti mai realizzati

Al di là di qualche occasione di pettegolezzo sulle inevitabili frizioni tra uno scrittore e il suo editor, il carteggio rivela almeno tre motivi di interesse. Il primo risiede nel fatto che Sciascia e Calvino, anche in brevi note legate ai risvolti finanziari del libro come prodotto merceologico, non smettono mai di essere scrittori. Il secondo è la vicendevole lettura critica delle rispettive opere: dall’analisi strutturata al lampo di intelligenza, non mancano spunti su cui ancora oggi si potrebbe discutere. Un esempio è la considerazione di Calvino ai margini di ‘A ciascuno il suo’, giallo ambientato in una Sicilia in cui tutto è limpido, cristallino, conosciuto, classificato e catalogato: compiutezza e chiarezza che, secondo Sciascia, derivano dal fatto che la Sicilia è, nella sua realtà e a dispetto di qualche rigurgito turistico, fondamentalmente morta. Il terzo, forse il più divertente per un lettore, si annida in quella controstoria della letteratura italiana che si ricaverebbe allineando i libri, le prefazioni, le traduzioni progettate, immaginate e mai realizzate, su cui i due amici hanno ragionato nelle loro lettere. E aggiungiamo infine un episodio poco conosciuto, che emerge da una missiva di Sciascia del 1963, in cui si rimprovera lo studioso biaschese Guido Calgari, che ha candidato ‘Il consiglio d’Egitto’ al premio letterario Charles Veillon, per avergli contrapposto in gara ‘La giornata di uno scrutatore’ (che poi vincerà). Agli occhi del permaloso siciliano, una sciatteria: “Ma sono contento, fraternamente contento, che tu abbia vinto”.

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