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Kržižanovskij, cronista di un mondo al rovescio

La lente dell'assurdo di un grande dimenticato sulla condizione umana nell'incubo sovietico

L’autore
(Wikipedia)
5 ottobre 2023
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“Dio era morto, e nulla era cambiato. Gli attimi si susseguivano nel loro corso vorticoso. Tutto era come era sempre stato. Non un singolo raggio di stella ebbe la più piccola vibrazione. Non una sola orbita deviò dalla sua ellissi”. All’inzio la tragica scoperta, preceduta da infausti presentimenti, sgomenta soltanto i cherubini, i serafini e le altre creature alate e piumate dei cerchi angelici. Non si scompone il docente londinese di ‘Storia dei pregiudizi religiosi’, che quando non trova qualcosa si concede il vezzo di usare espressioni antiquate, scomparse dall’uso comune, come “Lo sa Iddio”.

Questa fantasia del russo Sigizmund Kržižanovskijj (1872-1959) è ambientata in un’epoca che sembra avere felicemente escluso, bandito, estirpato e radicato dai cervelli la stessa nozione di Dio, al punto che una commissione per la liquidazione del culto ha smesso di funzionare da tempo per manifesta inutilità. Virologi, immunologi ed epidemiologi hanno scoperto, isolato e debellato il tremendo fideococcus, batterio che parassitava nei neuroni provocando la malattia della fede, responsabile di avere turbato per millenni il corretto rapporto tra l’uomo e il mondo. La profilassi per i sofferenti di fede in Dio, curati con speciali iniezioni di fosforo, ha dato i suoi frutti.

Tutto era come prima, ma non c'era più nulla

Ma dove il razionalismo ateo celebra il suo trionfo, là si annida il germe della sua dissoluzione: un astronomo dell’osservatorio di Greenwich assiste turbato allo spegnimento di una stella; un poeta francese si estenua alla ricerca di versi perfetti, avvampando ogni tanto di improvvisi rossori (“lo stato di grazia dei poeti ha carattere apoplettico, e si trattava proprio di uno di quei rari quanto acuti parossismi di grazia”), quando un’improvvisa e indefinibile sensazione di vuoto gli svela una drammatica e inconfutabile verità: tutto è come prima, ma è come se non ci fosse più nulla, perché è non c’è poesia, e non ce ne sarà mai più.

Altri strani episodi, sempre più frequenti, mandano a gambe all’aria calcoli, formule, previsioni e abitudini, terrorizzando gli uomini, che dopo la morte di Dio e a causa di questo evento ritrovano per disperazione la fede e riprendono a invocarlo, a pregarlo, a cercarlo. “Ma invano: Egli era morto”. Un incubo che apre una breve antologia di racconti di Kržižanovskij, ‘La tredicesima categoria della ragione’ (pubblicata nel 1993 dalle edizioni Biblioteca del Vascello con le traduzioni di Daniele Morante, Alessandro Niero e Isabella Belcari), distillato di un umorismo nero che, rovesciando il paradosso quotidiano in catastrofe metafisica, costò all’autore il disgustato rigetto degli intellettuali sovietici e l’inappellabile ostracismo della stampa di regime, votata al burocratico grigiore della glaciazione realista.

Il salvataggio dall'oblio

Fu il critico Vadim Perel’muter, incuriosito da un appunto del letterato Georgij Shengeli (“28 dicembre 1950: oggi è morto Sigizmund Dominikovič Kržižanovskij, autore di letteratura fantastica, genio misconosciuto, con un talento pari a quello di Edgar Poe e Aleksandr Grin. Finché era vivo, non una sua riga è stata pubblicata”), a sottrarre Kržižanovskij alla dimenticanza e al disinteresse a cui era stato confinato, recuperando materiali che sono stati pubblicati a partire dal 1989. Come il racconto che dà il titolo alla raccolta, lo sfogo di un anziano becchino costretto a prendersi carico delle disavventure burocratiche di un cadavere che non ha i documenti in regola per essere sepolto e si ritrova perciò sospeso in un limbo, in cui neanche da morto riesce a trovare pace: l’ottusa censura sovietica non avrebbe mai tollerato che si ridesse della ferocia di un apparato amministrativo demenziale e disumano, volto inderogabile del comunismo reale, strutturato per annullare la distinzione tra vivi e morti, accomunati nella degradazione a sudditi, cose, burattini in balìa del peggiore sadismo impiegatizio.

Un contesto che depotenzia, decaffeinizza e svuota le parole, annullandone la capacità di mostrare il vero volto della realtà e relegandole a slogan, insegne, luoghi comuni con cui risparmiare la fatica di pensare a chi per sopravvivere deve tacere: le città sono affollate ma silenziose come cimiteri, “le parole sono chiuse a chiave nelle cartelle, piegate in quattro nell’edicola del giornalaio, nascoste sotto berretti e cappelli”, e il potere ispira le proprie azioni al colloquio del Conte zio col Padre provinciale nei Promessi Sposi: “sopire, troncare, padre molto reverendo, troncare, sopire”.

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