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Giuseppe Clericetti, la storia della musica secondo me

Biasca ospita le lectiones del musicologo ticinese: ‘Entri in un museo e ti danno le audioguide, perché non si dovrebbe con la Classica?’

Le sue introduzioni toccano già i Concerti delle Camelie, le Settimane Musicali e il Lac
4 ottobre 2023
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L’età media del suo pubblico è «quella di Rete Due», ma ci sono anche due nativi digitali che hanno deciso di saperne di più sulla musica. «Solo musica classica, perché io sono un talebano». Associazione CulturAltura (Adriano Milani) e Bibliomedia della Svizzera italiana (Orazio Dotta) hanno chiesto a Giuseppe Clericetti di insegnare la storia della musica e il musicologo ticinese ha accettato di insegnarla. «Ma insegno la musica secondo me». Dal canto gregoriano in avanti, ‘La storia della musica secondo Giuseppe Clericetti’ consta di 32 serate biaschesi (di giovedì) inaugurate in settembre ma che si possono seguire anche salendo sul treno in corsa, per quattro cicli di otto incontri sull’arco di due anni. «È un po’ una scommessa», dice il protagonista, «ma vengono persone anche da Lugano».

Clericetti, ci spiega quel ‘secondo me’?

Parlo innanzitutto di musica che si è trasmessa attraverso le fonti scritte, a fronte di un buon 90% che usa la via orale. E parlando di musica scritta, così come si fanno corsi di storia della letteratura, della poesia, e cioè testi che vengono presentati e letti, così dev’essere per la musica: inizio quindi dall’insegnamento della notazione musicale.

A Biasca si deve arrivare ‘masticati’ di musica o la cosa è commestibile per tutti?

Non c’è nessuna condizione per partecipare e ho davanti a me persone interessantissime. L’ultima domanda che mi è stata fatta è se sia giusto applaudire dopo un movimento di una sinfonia, e io dico che certo, dobbiamo applaudire, è obbligatorio.

Sempre?

Non sempre. Ci sono situazioni in cui la musica non lo suggerisce, ma dopo alcuni movimenti, perché non farlo? Perché lo snob ti guarda malissimo, come se tu non capissi nulla? E invece tu capisci più dello snob, perché ti sei entusiasmato. È quanto accade anche nei concerti jazz, o all’opera. Ecco, uno dei miei intenti è quello di demolire i grandi luoghi comuni. Mi hanno chiesto: “Ma il direttore d’orchestra, è una figura utile?”. È ovvio che sia indispensabile, però Leonard Bernstein ce lo dimostra al contrario: fa un bis durante il quale mette le mani in tasca, dirigendo solo con lo sguardo. Ovviamente, lui può permetterselo. Ecco l’importanza dell’interpretazione, che è più del 50% rispetto al testo. È come nella recitazione: il bravo attore riesce a farti godere un lavoro teatrale pessimo, ma il pessimo attore distrugge Shakespeare, e il pessimo pianista distrugge Chopin.

Un altro luogo comune?

“Bach è sempre Bach”. E invece no, dipende dall’interprete. Un altro ancora, da smontare, lo ritrovo nell’insegnamento di Marcello Sorce Keller: la musica non è un linguaggio universale, la musica non unisce, divide. Io non capisco nulla della musica degli aborigeni, perché prima dovrei studiarla, trascorrere anni a praticarla. Solamente dopo la potrò capire.

È come quella cosa che per capire il jazz si deve ascoltare solo quello per un anno?

Sì, e vale per ogni genere musicale. Me lo diceva il grande Philippe Herrewege. “Perché non dirige più Josquin Desprez, o Palestrina?”, gli chiedevano, e lui rispondeva: “Perché ora sto facendo un percorso con Schumann, dovrei passare un anno solo con quella musica, perché è un altro mondo, è un altro modo di temperare gli strumenti”...

Dove arrivano le sue lectio?

Forse fino a oggi. Non sono un esperto di Novecento, né di contemporaneità, ma oggi assistiamo a casi molto interessanti. Arvo Pärt, per esempio. Interessante vedere cosa scrive, e non solo sentire cosa scrive. Un altro nome fuori dal coro è Nino Rota, che ha scritto centinaia di composizioni di musica cosiddetta classica; e poi i linguaggi molto personali del Novecento, quelli di Olivier Messiaen, del nostro Mario Pagliarani. La contemporaneità offre cose interessanti e altre, onestamente, inascoltabili.

Fa ascoltare anche quelle?

No, non c’è tempo per ascoltare cose brutte.

Il fatto che si insegni la musica classica per portarla a conoscenza di un pubblico denota un problema di insegnamento, a livello scolastico per esempio?

Ahimè, non so rispondere: è un problema più grande di me. Non so se si stiano utilizzando programmi d’insegnamento validi. Io credo vi sia il bisogno di consapevolezza. Entri in un museo e ti danno le cuffie, l’audioguida, oppure c’è la visita guidata. Ne abbiamo bisogno, perché non tutti sanno tutto di Botero, per esempio. Così è per i concerti: abbiamo bisogno di introdurci, di capire. Curo l’introduzione ad alcune serate dei Concerti delle Camelie, delle Settimane Musicali, al Lac, e sento un pubblico che vuole essere instradato, che è disponibile ad apprendere cose che ascolterà, riconoscerà e potrà mettere in relazione con altra musica e altre arti. Quanto alla musica, il fatto stesso che, normalmente, non la sappiamo leggere, fa riflettere.

Qual’è la reazione della gente a Biasca?

Bellissima. Persone attentissime, che prendono appunti. A me piace poi cercare nelle curiosità.

Una?

Le lettere di Orlando di Lasso, pieno Cinquecento, musicista europeo che parlava italiano, francese, tedesco e latino; era alla corte di Baviera ma dava del tu al Duca. Scrive delle lettere in cui mescola quattro lingue, e dice al Duca: “Ora devo lasciarti perché ‘Je dois faire une petite visitation au pays bas de ma femme’”. È spassoso leggere i testi di un musicologo tedesco che non riuscì a dare un senso alla frase, certo com’era che la moglie di Orlando di Lasso non fosse di origine fiamminga…

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