Otium

Il suono della guerra e quello del carteggio

L’ultima monografia di Carlo Piccardi e lo scambio epistolare tra Gianfranco Contini e Giovanni Battista Angioletti, curato da Liliana Orlando

Il libro di Piccardi, edito da Il Saggiatore

Pubblichiamo contenuti da ‘Otium’, pagina culturale a scadenza mensile

1. Violini e cannoni: l’ultima monografia di Carlo Piccardi

di Brenno Boccadoro, musicologo

Fiore all’occhiello della musicologia di lingua italiana – svizzera e internazionale –, Carlo Piccardi raccoglie in settecento pagine l’eco delle guerre che scossero l’Europa moderna per cinque secoli, dall’inferno dei campi di battaglia alle sale da concerto, i teatri d’opera e le corti. Benché involontario, il sincronismo che è venuto a ‘campare’ l’idea di questo libro – maturata da un saggio antecedente – sullo sfondo della crociata mossa dall’attuale altruismo umanitario di Vladimir Putin contro il nazismo e la depravazione dei costumi sessuali dell’Occidente, dice che il credo del suo autore è la storia e che la musica di cui si tratta è il suo sismografo. Vi è infatti chi ha scritto che, siccome la mente s’esprime nel corpo e in tutto ciò che fa, la musicologia avrebbe per oggetto l’umanità rispecchiata dalla sua musica. Se questo ha senso, nulla era più istruttivo che ripercorrere in filigrana le risonanze delle reazioni impresse nelle coscienze dai tumulti più violenti della storia, nei conflitti che agitarono l’Europa dal Cinquecento ai nostri giorni. Nemmeno la penna di Wagner avrebbe potuto trovare un tema conduttore più idoneo a reggere l’unità dell’intrigo. Che la pace costituisse un’eccezione, e la guerra la vera norma congenita nell’umanità era ovvio sin dai tempi di Anassimandro. Che poi la musica potesse suscitare la follia delle truppe al punto da inviarle con noncurante allegria alla morte (Girolamo Cardano) era una certezza sin dai giorni in cui i primi bipedi scesi dagli alberi delle foreste tropicali presero a imbrattarsi il volto atteggiandosi in gesticolazioni e danze grottesche per atterrire gli avversari.

Ciononostante nessuno, in passato, aveva avuto il vento in poppa e la conoscenza delle acque per far vela egregiamente oltre le colonne d’Ercole di questo mare, esplorato finora da studi puntuali. Partendo dal punto nodale del Cinquecento, spetta al Machiavelli ‘antiquario’ dell’Arte della guerra il compito di riassumere l’essenziale del venerando passato di queste credenze. Infatti nei secoli precedenti il formalismo musico-matematico di molta musica medievale, sorda ad aprire le porte dei sensi all’irruzione della realtà, sottrasse l’eco della guerra alla penna dei compositori. E ancora in pieno Cinquecento, la Guerre ou la Bataille de Marignan (1529) di Clément Jannequin non fu che una giocosa, impersonale e servile flatterie offerta a Francesco I, con tanto di licenza in svizzero tedesco. Lo stesso dicasi del canale attraverso il quale i discorsi sul potere manipolatore della musica raggiungono in vitro il sapere degli strateghi moderni, in seno agli argomenti ex auctoritate impiegati dall’ars musica come disciplina liberale per provare lo straordinario potere dell’armonia dei numeri di alterare l’anima e il corpo con l’efficacia del vino e delle droghe: il musico Timoteo, che con l’aulos frigio distoglieva Alessandro Magno da Bacco e Venere sforzandolo con furia a prendere le armi; la dissoluzione dell’io nell’ordine geometrico dei ranghi dell’esercito spartano, ritmata dai canti metrici e dal suono eccitante degli auloi... Di queste «bufale», che per secoli uccisero come le armi, se ne ridano pure gli sprovveduti. Lo scrive Plutarco a proposito della battaglia di Carre, in cui l’armata di Crasso venne decimata e suo figlio decollato nello scompiglio diffuso dalle grida disumane dei Parti elevate sopra il rombo di migliaia di timpani percossi da ambo i lati mediante martelli di bronzo, con un muggito insostenibile, simile al «ruggito delle belve selvagge» e al «fragore d’un tuono» (Vita di Crasso, XXIII, 8-XXIV, 1; XXVI, 4). Tantomeno se ne rise chi si trovò di fronte le bande dei giannizzeri, il ritmo incalzante dei tamburi napoleonici e il ronzio assordante di sciami di cornamuse scozzesi – ubique dal medioevo alla seconda guerra mondiale. Furono tanto dissuasive, scrive Rousseau plagiando Pierre Bayle, che al loro incedere un cavaliere di Guascogna non poteva impedirsi dal trattenere l’urina. Ed è chiaro che non furono i suoni a conferire a zufoli e zampogne la virtù di un’arma da taglio, bensì i riflessi condizionati dallo spettro di una fine imminente.

Pagato il tributo alla traditio, il discorso di Piccardi cala immediatamente in medias res muovendosi in contrappunto, con coerenza e sprezzatura, dal frastuono dei campi di battaglia agli interstizi più reconditi della storia musicale. Ecco allora la musica di corte misurarsi per tre secoli a colpi di diesis e di bemolle con l’alterità dell’esotismo distillato delle musiche extraeuropee, dalla moresca del Bourgeois di Lully alle turqueries settecentesche. Ecco emergere le valenze ambigue della loro acclimatazione nella musica cortese del Settecento, divisa fra la dilettazione giocosa e lo spettro della barbara decollazione collettiva della strage di Otranto. Colgono abilmente nel segno le pagine sull’irruzione musicale della realtà bellica nella seconda metà del Settecento in seguito all’autonomia crescente dell’io del compositore. L’evacuazione riservata dal regime assolutistico alla sfera privata aveva ingessato per secoli il discorso musicale in una posizione subalterna, «desistente dal farsi carico del significato degli eventi per più di un verso drammatico». Ma con la Rivoluzione francese, archi e moschetti rimeranno con libertà, fraternità e uguaglianza. In sintonia con l’emancipazione delle coscienze, i rapporti si fanno più stretti, dall’impegno politico dei compositori allo stesso corpo dei segni, spesso ridotti all’osso della loro materialità fino all’onomatopea: mortifere campane a martello, cannonate che vomitano nubi di zolfo sulle scene teatrali, pugni sferrati sulle tastiere, danze accentuate a colpi di pistola.

Ovviamente a celebrare i nazionalismi emergenti sarà il teatro lirico ottocentesco, nel «liberalismo» (Bellini) dei libretti, nei cori, le marce, gli inni e i castelli in fiamme. Uscito dalla penna di uno dei massimi conoscitori dell’opera, il capitolo sul «Patriottismo» riunisce una documentazione affascinante di centinaia di rappresentazioni sceniche, affrontate con una padronanza assoluta dei meccanismi della drammaturgia musicale. Carlo Piccardi appartiene a quella specie in via d’estinzione di addetti ai lavori muniti di un’approfondita conoscenza delle tecniche compositive e orchestrali, tale da schifare senza tregua l’aria fritta di un’esegesi parolaia delle partiture altrettanto arbitraria dei succhi gastrici di un taste vin.

Condensare en peau de chagrin la ricchezza di questo libro in poche colonne stringe il cuore. Occorre aver letto le sue centinaia di pagine per capacitarsi della dimensione vertiginosa delle informazioni, dell’acutezza e della lucidità delle sue analisi. L’indice dei nomi e delle opere comporta più di duemila entrate, dalla messa de l’Homme Armé di Guillaume Dufay (1410-1474) all’Exemplum in memoriam Kwangju (1981) di Isang Yung. S’incontrano piccoli e grandi nomi, Wranitzky, Fuchs (G.F), Haendel, i Classici, Beethoven, Britten, Alfredo Casella, compreso il jazz e la musica pop. Piccardi è passato ovunque, tanto che, sul tema, una seconda messe non si giustificherà molto presto nella comunità scientifica. Anche perché oggi, nell’ambito di una cattedra universitaria, nel regno della carta intestata e di quelle che persino Jean Starobinski amava descrivere, sorridendo, in termini di «entre-mangeries professorales», non è sicuro che un tale monumento di erudizione potrebbe nuovamente vedere la luce. Standing ovation al maestro Piccardi.

Carlo Piccardi, Il suono della guerra. La rappresentazione musicale dei conflitti armati. Milano, il Saggiatore, 2022.

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2. Caro Contini ... Caro Angioletti

di Carlo Caruso, italianista

Vent’anni di carteggio vòlto a promuovere la miglior letteratura contemporanea: è la cifra del volume, curato egregiamente da Liliana Orlando, che raccoglie le lettere di Gianfranco Contini e Giovanni Battista Angioletti scambiate tra il 1941 e il 1961. Contini è professore a Friburgo, poi a Firenze dal 1953. Angioletti è l’animatore del ‘Circolo italiano di lettura’ di Lugano; quindi, dopo il rientro a Roma nel ’45, direttore della ‘Fiera letteraria’ e successivamente dei servizi culturali della radio italiana. La collaborazione tocca il punto più alto nell’ora più buia, fra il ’41 e il ’44, con l’uscita di Finisterre (1943) di Eugenio Montale presso la ‘Collana di Lugano’ di Pino Bernasconi, seguita nel ’44 da Ultime cose di Umberto Saba e Né bianco né viola dell’esordiente Giorgio Orelli. La chiusura del ‘Circolo’ pone però Angioletti in serie difficoltà. Il carteggio testimonia allora di una gara di solidarietà intrapresa dagli amici – primi fra tutti i Pedroli di Mendrisio – e il sodalizio dà frutti fino al 1947, dopo di che il rapporto si allenta: forse anche per il venir meno delle circostanze eccezionali che l’avevano propiziato.

Leggere carteggi – specie se assistiti, come in questo caso, da un eccellente apparato illustrativo – invita a guardare agli eventi nel loro quotidiano divenire: a leggere, come si usa dire, senza il senno di poi. Tanto più brilla, fra le innumerevoli incognite e incertezze, la lungimiranza di decisioni prese nell’urgenza dell’ora. Memorabile è la vicenda del premio ‘Libera stampa’ del ’46 attribuito a Vasco Pratolini per l’inedito Cronache di poveri amanti. Contini, soddisfatto per l’esito globale, produce un elenco di giovani concorrenti “ignoti o poco noti”, meritevoli tuttavia della menzione: in quell’elenco figurano Giorgio Orelli, Luciano Erba, Pier Paolo Pasolini! Con i molti sodali ricordati nel volume, nomi cari a chi studia la cultura ticinese e italiana di quegli anni, Contini e Angioletti provarono a dare un nuovo avvio ai rapporti letterari fra i due paesi. Il senno di poi ci mostra quanto quell’avvio sia stato felice.

Gianfranco Contini - Giovanni Battista Angioletti, La libertà dell’arte. Carteggio (1941-1961), a cura di Liliana Orlando, Milano, Mimesis, 2023 (“Testi italiani commentati IX”)

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