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Amanda Gorman, chi deve tradurre il sogno americano?

Ma davvero per tradurre un’afroamericana serve una sua 'simile'? E poi cosa significherà mai 'simile', dato che parliamo di Paesi con storie diverse?

Incarnazione fin troppo perfetta dell’American Dream (Keystone)
22 marzo 2021
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Ne avevamo scritto con gli occhi lucidi anche su queste pagine: l’apparizione della poetessa afroamericana Amanda Gorman all’insediamento di Joe Biden incarnava il cambiamento, la volontà di lasciarsi da parte Donald Trump per sognare un’America meno feroce e razzista. È stato da Kleenex sentire quella 23enne figlia di una madre single, incarnazione fin troppo perfetta dell’American Dream, scandire con piglio ritmato e deciso che l’America “non è rotta, ma semplicemente incompleta” e che “la quiete non è sempre pace, e le nozioni di quel che è giusto non sono sempre giustizia”. Poi le cose vanno come vanno, le lune di miele finiscono, il momento dell’idealismo lascia spazio a quello più prosaico della Realpolitik. Di Gorman però si continua a parlare. Usciranno a breve anche in italiano tre sue libri: ‘The Hill We Climb’, volumetto che riporta la poesia letta per Biden, ‘Change Sings’, un libro illustrato per bambini, e una più ampia raccolta poetica. Il problema è sorto al momento delle traduzioni: agli editori di Spagna e Paesi Bassi si è contestata la scelta di traduttori che non rifletterebbero abbastanza l’identità di Groman. Gente troppo bianca e uomini, insomma. Ma davvero per tradurre un’afroamericana serve una sua ‘simile’? E poi cosa significherà mai ‘simile’, dato che parliamo di Paesi con storie diverse? Lo chiediamo a Matteo Bordone, creatore su ilpost.it del podcast ‘Tienimi Bordone’ e attento osservatore delle dinamiche editoriali di derivazione anglosassone.

Cominciamo dall’inizio. Gorman è divenuta famosissima per un tipo di poesia che dalle nostre parti è poco conosciuta: quella del ‘poet laureate’, il poeta a nomina governativa che scrive per le occasioni cerimoniali. Detta così, verrebbe da pensare più all’Unione Sovietica che agli Stati Uniti.

Si tratta in effetti di una forma di poesia civile alla quale siamo poco abituati. D’altronde la radice greca del termine ‘poesia’ rimanda al fare, quindi il campo d’azione poetico è da sempre molto ampio. In questo caso ci siamo anche di fronte a una performance molto efficace, retorica certo, ma non trombona: elegante e decisa, con una gestualità quasi da teatro danza, Gorman ha subito rovesciato la visione trumpiana secondo la quale le minoranze sono solo decimali dopo la virgola. Si tratta di una rappresentazione che ha qualcosa di paradossale – la testimone degli esclusi così vicina al potere –, ma funzionale al messaggio di rinnovamento che Biden intendeva lanciare in una cerimonia composta quasi solo da rappresentanti delle minoranze.

Nel suo podcast, facendo il verso a Battiato, lei dice che “questo sentimento popolare nasce da meccaniche di Prada”. C’è qualcosa di fasullo in Gorman?

Non intendevo questo. Semmai c’è in atto un tentativo di tenerne in vita il caso editoriale ben oltre il termine e il contesto tipici della poesia civile su commissione. Un tentativo che ha a che fare, più che con la promozione letteraria in senso stretto, con la volontà di prolungare la vendibilità della poesia facendone una specie di lasciapassare, di tessera d’appartenenza a un movimento votato al cambiamento. Il che è legittimo, per carità, ma crea libri che non vai a cercare. Semmai li trovi accanto alla cassa e ti dici ‘ma sì, dai, prendiamo anche questo’.

Nel frattempo è scoppiata una polemica su alcuni traduttori, giudicati inadeguati al ruolo perché non condividono l’esperienza di vita e l’essere parte di una minoranza di Gorman. Il trionfo del politically correct? Dopo tutto una parte del mondo conservatore lo prende già come l’ennesimo segno del ‘dove andremo finire, signora mia’.

Attenzione, dal punto di vista della società nel suo complesso non c’è stata alcuna polemica degna di nota, nulla che faccia pensare a una ‘dittatura del politically correct’. C’è stata semmai un’operazione di promozione del dibattito sulla questione che mi pare, se non creata ad arte dagli editori, quantomeno assecondata dai loro interessi: si butta la questione dei traduttori sui social network, dove qualche impallinato lo trovi sempre, da lì si ottiene un’eco nei media e così si tiene alta l’attenzione del pubblico in attesa che i libri di Gorman arrivino nelle librerie. Di per sé, però, sono pochissimi soprattutto in Europa coloro che la ritengono davvero una questione importante. Anche perché pretendere che ad esempio debba essere un’olandese di origine surinamese a tradurre un’afroamericana in realtà ci porta a una visione coloniale e ‘colorista’, nella quale tutti i neri sono considerati alla stessa stregua. Tra l’altro parliamo di una poesia molto semplice, tutta allitterazioni e semplici scarti semantici, nulla di ostico per un traduttore esperto.

Se però è opinione abbastanza condivisa che per tradurre un poeta ci vuole un poeta, l’essere parte di una minoranza che ha vissuto qualche discriminazione simile a quelle degli afroamericani non potrebbe dare ai traduttori maggiore sensibilità?

Qui c’è un errore di fondo sul ruolo e le dinamiche di qualsiasi traduzione. Come notava la scrittrice Zadie Smith in un articolo di un paio di anni fa, la traduzione, come la narrativa, non nasce quando traduttore e autore tradotto sono uguali. Al contrario: tradurre è mettersi nei panni di qualcuno di diverso allontanandosi da sé, assumendo mille voci diverse nel corso della vita. Una pretesa di perfetta somiglianza invece è assurda, e rischia paradossalmente di ricadere in dinamiche identitarie che sono il contrario del multiculturalismo.

In effetti il traduttore catalano ha notato che seguendo la stessa logica “non avrei potuto tradurre Shakespeare perché non sono un inglese del Cinquecento”. Intanto le lacrime dell’inauguration si sono asciugate, Biden è già da qualche mese alla Casa Bianca. Gorman sopravviverà alla ‘normalizzazione’?

Siamo passati dal Biden dell’insediamento a quello che dà a Putin del criminale, e in effetti il tempo gioca contro l’operazione editoriale. Mi viene in mente un parallelo con ‘Cat Person’, il racconto che Kristen Roupenian pubblicò sul New Yorker nel 2017 e fu subito preso a manifesto del #metoo. L’entusiasmo durò un mese e mezzo, l’autrice ottenne un contratto milionario per il suo primo libro, ma quando il racconto uscì poi in antologia non se lo ricordava già più nessuno.

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