laR+ L'intervista

‘Io e Stefano D'Orazio, amici per sempre. Anzi, fratelli’

Oggi l'addio a colui che è stato e sempre sarà il batterista dei Pooh, morto venerdì scorso a 72 anni. Il ricordo di Dodi Battaglia: 'Onesto e trasparente'.

Stefano e Dodi (foto: Dodi Battaglia facebook official)
9 novembre 2020
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«È un momento molto brutto, ma bisogna affrontare anche questo. In onore di quella che sarebbe stata la sua intenzione, e cioè comunicare la bellezza del nostro rapporto». In una domenica di sole buia come poche, alla fine Dodi Battaglia decide di condividere con laRegione il suo lutto, quello per la morte di Stefano D’Orazio, strappato dal Covid, due giorni prima, ai Pooh e alla musica italiana in una storia già sentita: il Covid che s’infila tra gli acciacchi e capovolge il corso di una malattia nemmeno tanto grave. E tu che te ne devi andare senza nessuno intorno.

Aveva ancora sogni nel cassetto D’Orazio, coi Pooh nei paraggi anche dopo l’addio nel 2009, per quello che sarebbe stato “il secondo tempo della vita mia” (sua), citando da suoi testi, prima del ritorno per i 50 anni dei suoi ’Amici per sempre’ (citando canzone e album del trentennale, 1996). Ma il virus gli ha dato giusto il tempo di affidare all’amico Roby Facchinetti le liriche di ‘Rinascerò rinascerai’, brano benefico per la di lui Bergamo, chiuso da parole benefiche ma beffarde: “Siamo nati per combattere la sorte, ma ogni volta abbiamo sempre vinto noi”.

Dodi Battaglia: chi era Stefano D’Orazio?

Posso dire chi è stato, chi è, per me. E cioè un fratello. Ma non di quelli che ti ritrovi perché i tuoi genitori hanno deciso di fare un altro figlio, e io sono figlio unico. Stefano è un fratello cercato, acquisito nel tempo, scelto, diventato tale per quanto di bello si è vissuto insieme. Era una persona straordinaria, fuori dal comune per la sua intelligenza, leggero in ogni cosa, di una simpatia atroce e devastante. Lo paragono a Walter Chiari, a Raimondo Vianello, a quelli che entrano in una stanza e la gente è subito felice. A Roma si dice ’un cazzaro’, che detto da un bolognese come me è pesante, mentre a Roma è tutt’altro che offensivo. Ma alla convivialità romanesca univa anche un suo modo di essere molto nordico, milanese, organizzato, metodico. Direi... ‘svizzerino’.

Red dice: “Nessuno potrà dire mezza parola su di lui se non una buona parola”.

Stefano era una persona per bene, come i suoi genitori. Onesto, trasparente, positivo. Guardava la vita e le persone negli occhi, comunicava coi fatti. È stato il nostro grande collante: glissava sui momenti difficili, andava oltre con una battuta, sdrammatizzava. Sai, in un gruppo non si può essere tutti Eric Clapton. Ci vuole anche chi sappia tenere insieme quattro caratteri diversi che arrivano da città diverse, con un approccio diverso alla vita, e lui l’ha fatto in maniera straordinaria. Gran parte di quello che abbiamo fatto in cinquant’anni di carriera si deve a lui.

Chi ti guarda negli occhi riesce a dire addio senza fare troppo male. Parlo del primo addio, quello alla band...

Sì. Quando disse che non se la sentiva più c’è stata incredulità, è ovvio. Io stesso mi chiesi qual è la persona che fa da quarant’anni il batterista dei Pooh e lascia. Cosa potresti chiedere dalla vita se non quello che stai facendo? Poi ho riflettuto. Stefano ha fatto questa scelta a 60 anni, non è scappato con una ballerina conosciuta al night la sera prima. Mi sono detto: se gli voglio bene in quanto fratello, perché contraddirlo. Non puoi dire a un sessantenne “non fare sciocchezze”. Perché sta facendo la scelta più importante della sua vita. Per cui, dopo una settimana a cercare di farlo rientrare nel gruppo mi dissi che dovevo assecondarlo: vuoi fare il monaco buddista? Vuoi scappare sull’isola deserta del Pacifico? Basta che tu sia felice. Io ci ho messo una settimana, i miei amici Pooh sei mesi, ma alla fine abbiamo fatto uno dei dischi più belli della nostra storia, siamo arrivati al cinquantennale e alla reunion. E credo sia stata la scelta migliore.

Come lo visse, Stefano, il suo rientro?

Stefano per certe cose era incerto, titubante. Credo non si sarebbe mai aspettato di essere richiamato, forse aveva appeso le bacchette al chiodo. Si era rifugiato a Pantelleria, non era preparato. Ha tentennato. Sarò sincero, dirò la vera verità: durante una riunione nel nostro ufficio in cui gli si faceva notare l’importanza della cosa, partendo dal presupposto che i festeggiamenti del cinquantennale li avremmo fatti con o senza di lui, gli dissi: “Stefano, sei romano. Supponi di entrare in un taxi e il tassista ti riconosce, e ti dice ‘Ahó, ma lei è quello dei Pooh! Ma ho visto i suoi colleghi in televisione che han fatto la festa. Ma lei perché non c’era? Che avete fatto, avete litigato? Vi state sulle scatole?”. Dopo mesi di tentennamenti mi disse: “Mi hai convinto”.

L’addio non ha cambiato le collaborazioni. Sin da subito avete suonato per i suoi musical...

Sì, chi ha vissuto insieme tali e tante emozioni e ha anche interessi comuni da gestire non può scappare su una montagna e fare l’eremita. Fino a pochi giorni fa eravamo in contatto per la compilation che la nostra casa discografica sta preparando a nostro nome. E pensare che la televisione ci mostra Valentino Rossi che prende il Covid-19 e quindici giorni dopo è in sella a una moto... Mai avrei pensato che questa storia avrebbe potuto avere un epilogo così tragico e in tempi così brevi. Era ricoverato da tre o quattro giorni, arrivavano notizie più o meno confortanti, nell’altalena tipica di una degenza. Tanto che quando è squillato il telefono pensavo fosse il solito sms di aggiornamento, e invece è andata com’è andata… Questo virus è una brutta bestia, bisogna farsene una ragione. E quelli che ci scherzano sopra non fanno bene né a loro stessi, né agli altri.

I Pooh perdono un altro batterista, e un altro autore di testi...

Quando se ne andò Valerio (Negrini, morto a gennaio del 2013, ndr), ogni volta che mi chiedevano di lui io dicevo che non c’erano più parole, perché non c’erano più testi. Era finito un mondo, si era esaurita una simbiosi. Stefano, magari in maniera minore di Valerio, ha scritto tanto, per cui a oggi non è che non ci siano più parole: le parole, per quanto mi riguarda, sono state soppresse dal vocabolario della musica.

Il virus che impone distanza non aiuterà i Pooh nel ricordare Stefano D’Orazio nel tributo che è atto ’sacro’ per la musica quando se ne va qualcuno…

Ora non c’è la mente per salire su di un palco, pur in onore di un amico, anche perché oggi su di un palco non si può salire. Già l’andare al funerale domani (oggi, ndr) tenendo le distanze è per me un tormento che non posso raccontare. Non nego che c’è stato un momento in cui mi sono detto: “Non vorrei soffrire più di quel che soffrirei se non ci andassi”. Poi mi sono chiesto cosa avrebbe voluto Stefano. E so che avrebbe voluto che tutti ci vedessero insieme, amici per sempre, un'amicizia coltivata per cinquant’anni.

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