Musica

'Let it be', l'ultimo dei Beatles. Anzi, il penultimo

Registrato poi messo da parte per 'Abbey Road', l'8 maggio di 50 anni fa usciva l'ultimo disco pubblicato dai Fab Four. Che quel giorno erano già ognuno per sé.

(Keystone)
9 maggio 2020
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“Pensi che siano finiti?”, chiede l’inviato della Bbc; “Finiti? Non finiranno mai. Sono troppo grandi per finire”, risponde la teenager davanti alla sede londinese della Apple Records in Savile Row. “Ma Paul McCartney ha lasciato il gruppo!”, incalza il primo; “Stronzate”, risponde la seconda. “E dove si crede di andare da solo?”.

Il 10 aprile del 1970, nelle ore immediatamente successive alla conferenza stampa nella quale Macca annunciava il suo addio ai Beatles, la frangia lennoniana delle fan dei Favolosi Quattro non se la prendeva certo con Yoko Ono, ma con Linda Eastman, moglie del mancino bassista. Con la band ormai sfasciata e il disco del Paul solista in arrivo, l’8 maggio dello stesso anno usciva ‘Let it be’, l’ultimo album che ultimo non è. Per questione di pochi mesi, il vero canto del cigno è infatti ‘Abbey Road’, registrato tra l’aprile e l’agosto del 1969. Dunque dopo ‘Let it be’, inciso tra gli studi di Twickenham e Savile Row dal 2 al 31 gennaio del 1969 (e lasciato in un cassetto fino all'anno dopo).

Per i Beatles, 'Let it be' nasce con l’intenzione di riappropriarsi della dimensione live degli inizi, senza artifici, senza sovraincisioni; con destinazione un concerto da tenersi “in un cratere delle Hawaii, davanti alle piramidi d’Egitto, sul Monte Everest, ovunque”, ricordava in febbraio Ringo Starr. “Poi ci dicemmo che si poteva anche restare qui, sul tetto”. Il tetto della Apple, sul quale è poi andato in scena l’iconico ‘Rooftop Concert’.

Vestito o '...Naked'

Per questioni che hanno riempito edicole e librerie del mondo – la parabola discendente di un rapporto umano e professionale, Yoko Ono, gli istinti solisti di tutti e l’essere arrivati a una specie di “Tu dimmi cosa devo fare e io lo faccio” (chi parla è Harrison, mentre “Tu” è McCartney) – alla fine delle session di ‘Let it be’ la più grande band di sempre decide di affidare a Phil Spector, Mr. ‘Wall of sound’, la conclusione del tutto. E il tutto viene iperprodotto e sovrainciso, per il temporaneo naufragare di un progetto messo da parte e fatto uscire – cinquant'anni fa ieri – a band già sciolta. E questo malgrado la grandezza di ‘Let it be’ (canzone), ‘Across the universe’, ‘Get back’, ‘I’ve got a feeling’ e ‘The long and winding road’, quest’ultima così avversa a Paul per l’orchestazione non prevista, ma portatrice di una linea di archi alla quale nemmeno lui rinuncerà nei decenni a seguire. Nel novembre del 2003, ‘Let it be… Naked’, l’intento di McCartney di restituire l’opera alla forma sognata, rappresenterà solo parzialmente un tesoro ritrovato: i bootleg delle ‘Get Back Sessions’ (o anche ‘Let it be Sessions’) già circolavano da secoli fra i tape traders. Ben prima del 2003, stavano pure nei 38 cd usciti per la Yellow Dog Records, una specie di Treccani del bootleg.

Il Signore dei Beatles

Non potrà chiamarsi ‘Let it be’, come il documentario di Michael Lindsay-Hogg uscito più o meno insieme al disco, con estratti dalle session e il leggendario live sui tetti di Londra. Ma la nuova testimonianza video di quel disco arriverà in sala (si spera) il 4 settembre 2020 per volere della Disney. Ne è regista Peter Jackson (‘Il Signore degli anelli’), che ha lavorato sulle 55 ore di riprese inedite agevolate da Yoko Ono, Paul, Ringo e Olivia Harrison, vedova di George, fornendo una nuova visione degli ultimi (penultimi) giorni della band. “C’era tanta gioia in quelle session” ha commentato Ringo Starr tornando a criticare la scelta registica di Lindsay-Hogg che nel 1969 “scelse di dare risalto a i soli momenti di tensione. Peter – chiude il batterista – è finalmente riuscito a riassumere le sensazioni di quei giorni”.

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