Culture

Il raggio verde del cambiamento climatico

Il curatore Francesco Cara ci racconta la rassegna ecologista dell'istituto i2a che debutterà, in versione ridotta, online

30 marzo 2020
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«Ci sembrava bello parlare di verde, di ambientalismo in ambito cinematografico facendo un omaggio a Éric Rohmer». E così ecco ‘Il raggio verde’, rassegna di film a tema ambientale che riprende il titolo della pellicola Leone d’oro a Venezia nell’86. L’idea, ci spiega il curatore Francesco Cara, era iniziare con la Biennale del territorio prevista a inizio aprile per poi proseguire con una proiezione al mese. Poi l’epidemia e il divieto di appuntamenti pubblici. Così Cara e l’istituzione internazionale di architettura i2a di Lugano hanno deciso «di andare sul digitale, modificando un po’ il formato: una sorta di anteprima della rassegna, che speriamo inizierà in autunno, con un cortometraggio e l’intervento di un esperto».
Il primo appuntamento – «un esperimento, speriamo che la tecnologia con noi e che per tutti sarà un’esperienza piacevole» – sarà domani alle 18 sulla piattaforma Zoom (il link della conferenza è zoom.us/j/188157214) poi altri quattro appuntamenti dedicati al clima che cambia, probabilmente seguiti da un altro ciclo di cinque incontri, sempre “in digitale”, più concentrati sulle soluzioni concrete.

Come sarà questo primo incontro?

L’obiettivo è parlare del clima che cambia nei termini più poetici, più emotivi possibili e il primo cortometraggio sarà con un bellissimo progetto musicale, il Climate Music Project nato a San Francisco: delle composizioni musicali che partono da dati climatici, interpretazioni del mutamento climatico, arricchite da grafici e immagini di repertorio. Dopo questa decina di minuti di videoarte, ci sarà l’incontro con Serena Giacomin, una bravissima meteorologa e climatologa italiana, presidente dell’Italian Climate Network che parlerà anche lei per una decina di minuti. Poi, utilizzando la chat, ci sarà spazio per le domande, cercando di stare nella mezz’ora.

Prima ha detto che si vuole essere “più emotivi possibile”. Ma l’emozione non rischia di essere una cattiva consigliera?

Quello che ci interessa esplorare, soprattutto attraverso i filmati, è un altro modo di parlare del cambiamento climatico: un linguaggio più narrativo, più legato alle esperienze, ai vissuti. Quindi emotività, certo, ma intesa come l’entrare in relazione con un argomento in modo complementare a quello che dicono la scienza, i dati, i modelli. Per noi non si tratta di una contrapposizione tra razionalità ed emotività, ma della ricerca di un complemento tra le due cose, per aggiungere un elemento più umano alla nostra comprensione e al nostro coinvolgimento nella questione climatica.
Quella del clima è una questione talmente complessa che secondo noi va affrontata su diversi piani, cercando di dare alle persone e alla comunità strumenti per capire, per posizionarsi, per sviluppare una propria strategia.

Ma c’è un problema di consapevolezza? Gli scioperi per il clima e Greta Thunberg farebbero pensare al contrario.

Questo è un argomento su cui abbiamo molto discusso è certamente grazie alla straordinaria Greta Thunberg e a molti altri interventi – penso all’enciclica di Papa Francesco – c’è adesso molta consapevolezza sul mutamento climatico, sulla rapidità dei cambiamenti che stiamo vivendo. Io faccio parte di una rete, Climate Reality, creata da Al Gore e per noi, oggi, è molto più facile di un tempo entrare nelle scuole, nelle università, nelle organizzazioni per parlare di crisi climatica. C’è molta attenzione, si vuole capire di più, soprattutto si vuole capire cosa fare, come agire a livello individuale, di comunità, di associazioni, di attivismo politico. Quindi non solo c’è la consapevolezza, ma si sta facendo anche il passo successivo, l’azione.
Per tornare a questo primo incontro: il filmato, visivamente e musicalmente molto bella, ci mostrerà la situazione fino al 2019; poi Serena Giacomin ci farà andare oltre, ci racconterà i possibili scenari da qui al 2050 e al 2100, per aiutarci a capire, a posizionarci, a capire quale ruolo vogliamo avere in questo futuro.

C’è quindi di che essere ottimisti, rispetto al cambiamento climatico?

Grazie al lavoro dell’Ipcc (il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, ndr), di questa fantastica organizzazione con la sua ricerca, i suoi scenari, le sue raccomandazioni, sappiamo che cosa dobbiamo fare. È un enorme progresso: non c’è mai stata così tanta chiarezza sulle tappe fondamentali e le azioni da intraprendere.
Poi c’è la realizzazione, la messa in pratica. E quello che vedevamo – prima della crisi dell’epidemia del nuovo coronavirus – erano segnali molto positivi, per quanto accompagnati da altri segnali meno positivi, di volontà di ignorare il cambiamento climatico.
Come dicevamo prima, adesso c’è una consapevolezza generalizzata, c’è interesse per le soluzioni: ci sono Paesi che stanno prendendo misure efficaci e rapide, ad esempio realizzando sistemi elettrici completamente de-carbonizzati, il grande dinamismo dell’Unione europea per sviluppare un’economia verde, non più basata sui combustibili fossili. Vediamo anche dati positivi da Cina e India che continuano a utilizzare il carbone, ma stanno anche investendo in misura importante nelle energie rinnovabili… Chiaramente non c’è la velocità che noi ambientalisti riteniamo necessaria, e in Paesi come il Brasile c’è molta resistenza all’idea stessa che ci sia un’emergenza climatica. Negli Stati Uniti abbiamo Trump che non crede nel cambiamento climatico, ma c’è anche forte autonomia a livello di Stati e di città, per cui anche lì investe molto nelle energie rinnovabili.

Questo, come accennato, prima dell’epidemia.

Sì, prima del coronavirus. Ma secondo noi ora riflettere sul futuro, riflettere sui cambiamenti climatici diventa ancora più importante perché usciremo profondamente trasformati da questa crisi. E ci auspichiamo che il mondo che ricostruiremo sarà un mondo sostenibile.

C’è chi nega il cambiamento climatico. Abbiamo citato gli Stati Uniti e il Brasile, ma l’impressione è che certi movimenti si stiano facendo sentire anche in Europa.

Negli Stati Uniti il dibattito è sempre stato molto esplicito, nel quale le posizioni negazioniste emergevano. In Europa non abbiamo mai avuto un contrasto così forte: continuano a esserci dei gruppi che ogni tanto emergono – penso al caso italiano, dove per una distorta idea di par conditio agli attivisti spesso si contrappongono dei negazionisti del cambiamento climatico – ma non trovo che la situazione sia paragonabile agli Stati Uniti, con scienziati che ricevono minacce personali perché fanno ricerca sul cambiamento climatico, o al Brasile dove gli attivisti rischiano, e talvolta perdono, la propria vita.

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