Culture

Il libro come utopia secondo Inge Feltrinelli

La regina della pubblicazione si è spenta questa notte all'età di 87 anni Riproponiamo un'intervista apparsa sulle nostre colonne nel 2014

The Queen of Publishing, Inge Feltrinelli (foto: Ti-Press)
20 settembre 2018
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Quella di Inge Feltrinelli è stata davvero una vita fra immagine e parola, come recita il titolo di uno degli eventi della Primavera locarnese. Lei però è stata ospite di quello più precisamente legato alla parola, gli Eventi letterari al Monte Verità, dal titolo ‘Il demone dell’Utopia’, dove il 12 aprile 2014 ha consegnato il Premio Enrico Filippini a Klaus Wagenbach, editore tedesco fra le altre cose impegnato nella diffusione della letteratura italiana in Germania.

Inge Schönthal, prima di conoscere e sposare Giangiacomo Feltrinelli, è stata una fotoreporter autrice di scatti divenuti celebri, come quello di Ernest Hemingway con un pesce spada. Ad Ascona, il pubblico l'ha incontrata nella sua veste di editrice, collega e amica sia di Wagenbach che di Filippini (ricordato in questi giorni anche con tre pubblicazioni a cura di Alessandro Bosco, una delle quali edita da Feltrinelli, ‘L’ultimo viaggio’; le altre due da Castelvecchi, ‘Eppure non sono un pessimista. conversazioni con Jürgen Habermas’ e ‘Frammenti di una conversazione interrotta. Interviste 1976-1987’).

Un lavoro, quello delle edizioni che, ci conferma Inge Feltrinelli con una risata, la diverte ancora molto. Infatti, a 83 anni [al tempo dell'intervista; ndr], non pensa a riposarsi e al telefono ci risponde in ufficio, affabile e disponibile, con quell’accento tedesco che non ha mai perso in più di 50 anni in Italia. Da quando, nel 1960, la fotoreporter seguì Feltrinelli a Milano. Ritrovandosi alcuni anni dopo, quando il marito fu costretto in clandestinità dal suo ruolo nella lotta armata (e poi morì), alla testa del suo impero editoriale.

Quali sono state le maggiori difficoltà che ha dovuto affrontare in quegli anni?

Mah, c’erano le banche che chiudevano tutti i conti, molti autori se ne sono andati. Ci sono stati dei momenti difficili, molto difficili. Già nel 1969 sono diventata vicepresidente, Giangiacomo ha avuto piena fiducia in me. C’era una solidarietà di tutta la redazione, c’è stato un momento di fiducia nel libro. Abbiamo creduto che con i libri si potesse cambiare il mondo: era un’utopia (ride, ndr).

E adesso ci crede ancora?

No. Si può stimolare, cambiare no.

In quella redazione c’era anche Enrico Filippini (poi passato alla Bompiani e a ‘Repubblica’, ndr). Quale ricordo conserva di lui?

In quei tempi lui è stato davvero bravissimo. Era un uomo divertente, brillante, un hippy di Ascona. Quando lo hanno chiamato a Zurigo, alla facoltà di filosofia, hanno visto questo hippy in jeans e scarpe da tennis, e hanno detto “no, questo non è un tipo serio”. E non gli hanno dato il lavoro. Oggi sua figlia, Concita, è professoressa in quella stessa facoltà.

Quali le sue qualità intellettuali che più l’hanno colpita?

Era un acutissimo esperto di letteratura in lingua tedesca. Era amico di Dürrenmatt, di Frisch, di Günter Grass, di Ingebor Bachmann. Ed era un brillante traduttore e editor.

Parliamo di Klaus Wagenbach, l’editore con “più precedenti penali, ma anche più premi”. Come racconterà ad Ascona, lei lo ha conosciuto nel 1959. Pochi anni dopo lui ha fondato la sua casa editrice. Qual è stato il suo ruolo nella diffusione della letteratura in lingua italiana in Germania?

Nella sua gioventù, parliamo dei primi anni Cinquanta, lui ha fatto un viaggio in bicicletta attraverso l’Italia; senza una lira e dormendo dove capitava. Se ne è innamorato. Lui è un edonista vero, in contrasto con la Germania prussiana e puritana. Parla malissimo italiano ma, siccome è stato nominato Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, si considera un onorato cittadino del Paese. In effetti lui in Germania ha ricevuto tutti, da Pasolini a Malerba, da Gadda a Tabucchi, da Benni a Natalia Ginzburg. La sua è di per sé una casa editrice italiana.

L’impresa editoriale di Wagenbach, nel 1964, era stata vista con apprensione dai suoi amici più intimi. Lei stessa ricorda che il motto era “una buona casa editrice è sempre sull’orlo dell’abisso”. Ma se la buona editoria era vista così negli Sessanta, qual è oggi la situazione?

È di nuovo l’abisso, la sopravvivenza è l’obiettivo. Ne parlavo proprio ieri con lui. La gente non legge più, non c’è più la passione, non ci sono più i soldi nella medio-borghesia. La Germania è stata un paese di Bildungbürger (borghesia colta, ndr) e questi non hanno più soldi. Anche i giovani sono troppo occupati con Internet.

Se è così in Germania, in Italia come va?

Peggio. Nel 2013 abbiamo perso il 15 per cento di lettori. In Italia solo il 39 per cento delle persone compra almeno un libro l’anno. Sono dati catastrofici, siamo sotto la Spagna. Noi cerchiamo di stimolare i lettori con delle iniziative e altre merci. Nei prossimi giorni apriamo a Firenze un’altra libreria RED, ‘Read Eat Dream’, con ristorante. Ma è difficilissimo.

In questi decenni in che modo è cambiata la circolazione degli autori in lingua italiana nel resto d’Europa?

Noi in passato abbiamo fatto un grande classico, ‘Il Gattopardo’, un evergreen che si vende ancora oggi. Poi è arrivato Umberto Eco con ‘Il nome della rosa’, che ha trascinato tanti altri autori in Germania. Gli editori erano pazzi per gli italiani. C’erano Calvino, Sciascia, Primo Levi, Malerba, Natalia Ginzburg. C’è stato un boom degli autori italiani dopo Eco, ma questo è passato.

Lei con Klaus Wagenbach aveva fondato anche un premio letterario, il ‘Premio dei 7’. Nonostante si legga poco, i premi riescono ancora a calamitare l’attenzione e ad aprire dibattiti e polemiche...

Almeno si parla degli autori e dei libri, a questo servono anche una Fiera di Torino o di Francoforte. È una cosa eccezionale.

Un ruolo importante dunque lo conservano ancora. Considerate le difficoltà degli editori, mantengono anche una credibilità?

In Italia ci sono troppi premi, ogni piccolo paese per la voglia di visibilità o di stimolare il turismo crea un premio letterario. Quelli importanti davvero sono lo Strega e il Campiello. E c’è una lotta totale, feroce, fra editori; è impressionante. Se il libro ha qualità, per la scrittura e per la storia, il premio arriva. Però se il libro non vale, può darsi il caso di un flop del premio, perché un editore magari compra i voti...

Torniamo per un attimo all’utopia, tanto non costa niente. Quale libro vorrebbe pubblicare, se solo potesse?

Ricordo quando sono venuti da me in vacanza gli editori di Salman Rushdie e leggevano un manoscritto, era ‘I figli della mezzanotte’. Chiesi loro di che cosa si trattasse, mi risposero che era un libro bellissimo sui bambini di Calcutta. Dissi “no, questo è troppo triste per l’Italia, di bambini poveri sulla strada ne abbiamo anche a Napoli”. E così dopo mi sono pentita molto, tante volte mi sono detta: che cosa ho fatto?!, ho rifiutato Rushdie. Succede.

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