Arte

Il senso del museo dopo la pandemia

Finita l'era delle mostre di massa, l'arte può tornare a un'offerta culturale lontana dallo show business e incentrata sul benessere del pubblico

Art business (Photo by Alicia Steels on Unsplash)
9 maggio 2020
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Il 14 aprile 2020 El País, quotidiano spagnolo, pubblica un articolo con il titolo: “Il museo del futuro si congeda dalle mostre di massa”.

Attraverso la rassegna di alcune riflessioni proposte da operatori di istituzioni internazionali (El Prado, Musei di Berlino, American Alliance of Museums, Wellcome Trust del Regno Unito) il testo affronta un tema importante: “Non ha senso continuare con le stesse pratiche museologiche; i cambiamenti socioeconomici trasformeranno le condizioni materiali che hanno sostenuto un modello internazionale collassato”.

La prima reazione è di tristezza: è stata necessaria la tragedia che stiamo vivendo per rendersi conto di quanto insensate siano le pratiche dominanti dell’arte e di come show business e offerta culturale non sono la stessa cosa?

Occorre a questo punto, se finalmente ce ne siamo resi conto, ripristinare la concezione fisiologica della offerta culturale e artistica nei modi descritti anche nel testo spagnolo: “la cultura non è tempo libero e i musei sono luoghi della speranza”; “stiamo assistendo alla fine della tirannia dei numeri a favore di una esperienza museale incentrata sul benessere del pubblico”. Non è facile ma si deve.

Il museo ha una funzione sociale vicina a quella dell’ospedale e della scuola: opera per favorire, consolidare, strutturare il benessere delle persone. Non vi è alcuna relazione tra questa funzione e la quantità di persone che si accalcano in un luogo, sia nel caso delle stanze di Raffaello, sia in quello della simpaticissima turlupinatura di Christo sul Lago d’Iseo. Abbiamo purtroppo potuto verificare che non vi è nemmeno relazione tra la massa di offerta culturale (potremmo dire il livello di acculturazione formale del pubblico) e una offerta culturale e artistica orientata al benessere collettivo. Lugano, città caratterizzata da una densissima offerta culturale, si ritrova inquinata da superfici metalliche che abbagliano i passanti, mentre le coltissime rive del Lago Maggiore settentrionale hanno rischiato di essere inquinate da una declinazione minore della turlupinatura di Christo. 

Quindi: la relazione tra quantità e benessere collettivo nel settore culturale è tutt’altro che lineare e sul concetto di qualità dobbiamo riuscire a discutere in modo costruttivo, pagando divisioni laceranti. Non sarà quindi facile ripristinare una offerta culturale e artistica ”incentrata sul benessere del pubblico”, per citare di nuovo El País

Una prima cosa che dovremmo a questo punto sforzarci di fare è concepire i luoghi dell’offerta culturale come luoghi simili, appunto, a quelli dell’offerta sanitaria e formativa e a quelli che sono preposti al miglioramento del benessere e al confronto con l’idea di benessere. Lo sono in parte stati senza che molti se ne accorgessero. In occasione dell’ultima fiera di Ginevra ho visitato una mostra in una galleria internazionale e il museo della città. Ero solo. Ho avuta una esperienza analoga a Berna, Basilea, Firenze, Chicago e altrove: un florilegio di risorse e quasi nessuno a usarle. 

Quindi il punto è, semmai, come consentire al popolo l’accesso alla offerta culturale. Insisto: come per il diritto alla salute e alla formazione. Sicuramente non possiamo mettere questa esigenza in relazione con un sistema di incassi monetari ma dobbiamo trovare le modalità di redistribuzione delle risorse che consentano a tutti di stare bene, di convivere in equilibrio con se stessi e di rispondere alle proprie esigenze esistenziali. La cultura contribuisce al secondo fattore, la produzione artistica al terzo. 

Così come per stare bene è utile evitare di nutrirsi con elementi tossici e condurre una vita sensata, così è importante che l’offerta culturale e artistica risponda a criteri di qualità. A questo fine è necessario operare sul fronte della distribuzione e su quello della produzione.

La qualità e la disqualità

Per riprendere il contesto dal quale siamo partiti, abbiamo la fortuna di non avere distrutto tutto il patrimonio prodotto negli ultimi millenni. Che si pensi al Prado o al Kunstmuseum o alla National Gallery o alla Pinacoteca comunale, abbiamo depositi debordanti di lavoro eseguito nel corso dei secoli. Quandanche tale patrimonio non rispondesse a esigenze condivise di qualità, sarà interessante altrettanto mettere in mostra ciò che si ritiene disqualità e offrire alle generazioni che si stanno forgiando alla produzione la possibilità di scegliere come formarsi e come strutturare il proprio lavoro. Il mio professore di storia economica, pianista, mi insegnò che è importante ascoltare qualsiasi esecuzione perché anche le peggiori possono insegnarci qualcosa. Cioè: è decisiva la qualità del lavoro di distribuzione più della qualità del prodotto distribuito. 

Una difficoltà impegnativa sarà cercare di recuperare ciò che possiamo dai danni fatti nel sistema formativo che ha prodotto generazioni di “scienziati” curatori e allestitori e organizzatori, esperti gestionali della cultura che dovrebbero ora essere aiutati a liberarsi di tanta ignoranza instillata loro nelle scuole e messi in condizioni di acquisire informazioni e strumenti utili. Ciò vale anche per il settore produttivo. Non siamo privi di artisti validi così come non lo siamo di persone capaci di costruire progetti espositivi e di governare un museo, così come non siamo privi di panificatori o di gelatai ma sappiamo quanto sia difficile trovarne di veri, cioè di gente concentrata sul proprio lavoro anziché sulla vendita in modalità cool. 

Ricordo, ormai alcuni lustri or sono, una mostra di lavori di giovani diplomati alla NABA di Milano e alla Accademia di Venezia. Il curatore, interrogato sulla esperienza, mi raccontò quanto lo avesse sorpreso vedere i primi concentrati sugli aspetti organizzativi e gestionali mentre i secondi erano preoccupati della qualità del lavoro. Temo che oggi la differenza sia stata appianata. Il capitalismo commerciale ha prodotto molto inquinamento, sciatteria, malformazione e impoverimento anche nell’industria culturale.

Il lavoro artistico in mezzo a una folla

Tiriamo frammentariamente le somme: ha senso fare un viaggio per ammassarsi con altri di fronte a un’opera d’arte famosa? No. Affacciandoci a un lavoro artistico in mezzo a una folla vediamo qualcosa? No (figuriamoci on line). La funzione sociale dei luoghi della cultura, della sanità e della formazione è in relazione con la vendita di biglietti di ingresso? No. Disponiamo di materiale storico e di produzione attuale con i quali nutrirci? Si. Qual è la difficoltà? Liberarci dell’inquinamento prodotto nei sistemi formativo, produttivo e distributivo dalle esigenze del capitalismo commerciale e consentire alla realtà di esprimersi in modo più ricco, anziché più povero. 

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